Colsi, chino, la bellezza, tutta chiusa in una sfera, dispersa nella bufera aprilina d’una brezza.
Parigi, il tonfo d’un sasso, nella tua Senna caduto, pare il cuore. Parigi, terra umana d’umani addii,
Il sole a filo del germoglio gravido, limone appeso, un globo smusso di quarzo citrino. E dietro la quiete
Guardo le strade ricolme di gente, o me ferito da sentenze innocue. Ascolto d’esse l’infelice niente sparso per sillabe confuse e roche… E sento il cuore, spento di speran…
D’un sole lampeggiante Vive il meriggio all’ombra, Tra le frasche. Il mattino ha portato in sè Notizie infauste, ma arde
Ti sia questa sete proibita se già credi che non berrai più, mio giovane amico innamorato in questa festa che è la mia tortu… Non giova al puledro il seno cavo
Chissà se la volontà s’incrini all’impotenza del volere dinnanzi al fatto necessario, o se l’atto sempre sia contrario al caotico destino.
Svanì rapido col suo mistero. Era il baleno, l’istante del bocciolo dischiuso, aperto e già concluso nel suo profumo aitante.
Ombra notturna, lugubre forma, luce che sei, sospesa, accogli gli occhi miei, dai sogni ormai perduti tormentati, in questa veglia buia!
La notte mia trascorro in ebbri stinti sguardi. Il bello ammiro, il dolce male, delle sfumate cose. Il brutto del mio aspetto ignoro.
Supino al fianco d’una venere —nel vuoto che succede al culmine— ho perduto la scienza d’esistere. Poco più d’un respiro è valsa questa piena assenza del vivere.
Giaccio nell’inerzia che Dio igno… al mezzodì, fermo al cencio di sol… scagliato sulla marea irta e incre… che balza sul picco, punge ed irro… la rena e la ghiaia di salsedine.
Che ho da chiederti, o vita? Quale dono o cambiamento? Sull’albizia il fiore attendo e null’altro. Allora perché questa preghiera
O mosca nera, nel calice caduta, morta ebbra del mio vino, tomba più dolce non puoi bramare.
L’urlo non supera la mia afonia. Assieme a me la sera è sola. S’incede appressati al cespo che si fa siepe più in là dove la pietraia arenata si fa schiuma