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Alessandro Manzoni

Alessandro Manzoni, nome completo Alessandro France (sco Tommaso Antonio Manzoni (Milano, 7 marzo 1785 – Milano, 22 maggio 1873), è stato uno scrittore, poeta e drammaturgo italiano. Considerato uno dei maggiori romanzieri italiani di tutti i tempi per il suo celebre romanzo I promessi sposi, caposaldo della letteratura italiana, Manzoni ebbe il merito principale di aver gettato le basi per il romanzo moderno e di aver così patrocinato l’unità linguistica italiana, sulla scia di quella letteratura moralmente e civilmente impegnata propria dell’Illuminismo italiano. Passato dalla temperie neoclassica a quella romantica, il Manzoni, divenuto fervente cattolico dalle tendenze liberali, lasciò un segno indelebile anche nella storia del teatro italiano (per aver rotto le tre unità aristoteliche) e in quella poetica (nascita del pluralismo vocale con gli Inni Sacri e della poesia civile). Il successo e i numerosi riconoscimenti pubblici e accademici (fu senatore del Regno d’Italia) si affiancarono a una serie di problemi di salute (nevrosi, agorafobia) e famigliari (i numerosi lutti che afflissero la vita domestica dello scrittore) che lo ridussero in un progressivo isolamento esistenziale. Nonostante quest’isolamento, Manzoni fu in contatto epistolare con la migliore cultura intellettuale francese, con Goethe, con intellettuali di primo ordine come Antonio Rosmini e, seppur indirettamente, con le novità estetiche romantiche britanniche (influsso di Walter Scott per il genere del romanzo). Biografia Origini familiari Famiglia Alessandro Manzoni proveniva, dal lato materno, da una famiglia illustre, i Beccaria. Il nonno materno di Manzoni, infatti, era quel Cesare Beccaria, autore del trattato Dei delitti e delle pene, che fu uno dei principali animatori dell’illuminismo lombardo. A detta del Manzoni stesso, lui e il nonno si conobbero soltanto una volta, in occasione della visita della madre presso il celebre padre. La parentela coi Beccaria lo rendeva inoltre lontano cugino dello scrittore scapigliato Carlo Dossi. Più modesta era invece la famiglia paterna: don Pietro Manzoni, il padre di Alessandro, discendeva da una nobile famiglia di Barzio, in Valsassina, e stabilitasi a Lecco (nella località del Caleotto) nel 1612 in seguito al matrimonio di Giacomo Maria Manzoni con Ludovica Airoldi nel 1611. Per quanto don Pietro Antonio Pasino Manzoni (1657-1736) avesse poi ricevuto il feudo di Moncucco nel novarese nel 1691, e per quanto in virtù di ciò fossero conti, il titolo a Milano non era valido perché “straniero”. Inizialmente don Pietro presentò al governo austriaco una richiesta ufficiale perché fosse riconosciuto, ma poi preferì non insistere. In ogni caso, quando Roma attribuirà molto più tardi la cittadinanza al Manzoni, il titolo comitale apparirà sull’atto ufficiale e verrà mantenuto dalla sua discendenza. Manzoni e Giovanni Verri Nonostante il padre legittimo fosse Pietro Manzoni, è molto probabile che il padre naturale di Alessandro fosse un amante di Giulia, Giovanni Verri (fratello minore di Alessandro e Pietro Verri). Con Giovanni, uomo attraente e libertino, di diciassette anni maggiore di lei, ella aveva avviato una relazione già nel 1780, proseguendola anche dopo il matrimonio. Dalle parole del Tommaseo pare evincersi come Verri fosse il vero padre dello scrittore, e come questi ne fosse pienamente a conoscenza: «Anco di Pietro Verri [Manzoni] ragiona con riverenza, tanto più ch’egli sa, e sua madre non glielo dissimulava, d’essere nepote di lui, cioè figliuolo d’un suo fratello». L’infanzia e l’adolescenza Galbiate e la separazione dei genitori Alessandro Francesco Tommaso Antonio Manzoni nacque a Milano, allora parte dell’impero asburgico, al n. 20 di via San Damiano, il 7 marzo 1785 da Giulia Beccaria e, ufficialmente, da don Pietro Manzoni. Trascorse i primi anni di vita prevalentemente nella cascina Costa di Galbiate, tenuto a balia da Caterina Panzeri, una contadina del luogo. Questo fatto è attestato dalla targa tuttora affissa nella cascina. Sin d’ora passò alcuni periodi alla villa rustica di Caleotto, di proprietà della famiglia paterna, una dimora in cui amerà tornare da adulto e che venderà, non senza rimpianti, nel 1818. In seguito alla separazione dei genitori, Manzoni venne educato in collegi religiosi. L’educazione religiosa a Merate e a Lugano Il 13 ottobre 1791 fu accompagnato dalla madre a Merate al collegio San Bartolomeo dei Somaschi, dove rimase cinque anni: furono anni duri, in quanto il piccolo Alessandro risentiva della mancanza della madre e perché soffriva del difficile rapporto con i suoi compagni di scuola, violenti tanto quanto gli insegnanti che lo punivano di frequente. La letteratura era già una consolazione e una passione: durante la ricreazione, racconterà lo scrittore, «…mi chiudevo […] in una camera, e lì componevo versi». Nell’aprile del 1796 passò al collegio di Sant’Antonio, a Lugano, gestito ancora dai Somaschi, per rimanervi fino al settembre del 1798. Nello stesso 1796, giungeva sul Lago di Lugano il somasco Francesco Soave, celebre erudito e pedagogista. Per quanto sia del tutto improbabile che Manzoni l’abbia avuto come maestro (se non per qualche giorno), la sua figura esercitò sul bambino una notevole influenza. Vecchio e prossimo alla morte, l’autore de I promessi sposi ricordava: «Io volevo bene al padre Soave, e mi pareva di vedergli intorno al capo un’aureola di gloria». Passò, alla fine del '98, al collegio Longone di Milano, gestito dai Barnabiti e quindi si trasferì a Castellazzo de’ Barzi, dove l’istituto aveva stabilito provvisoriamente la propria sede a causa delle manovre belliche per poi tornare, il 7 agosto 1799, a Milano. Non è chiaro quanto l’adolescente rimanesse dai Barnabiti, anche se l’ipotesi più accreditata lo fa supporre allievo della scuola fino al giugno 1801. Alessandro, nonostante l’isolamento cui era costretto per colpa dell’ambiente chiuso e bigotto, riuscì a stringere alcune amicizie che resteranno durature nel corso degli anni a venire: Giulio Visconti e Federico Confalonieri furono suoi compagni di classe. Un giorno imprecisato dell’anno scolastico 1800-1801, poi, gli scolari ricevettero una visita che suscitò nel Nostro una grande emozione: l’arrivo di Vincenzo Monti, che leggeva avidamente e considerava il più grande poeta vivente, «fu per lui come un’apparizione di un Dio». La formazione culturale La formazione culturale di Manzoni è imbevuta di mitologia e letteratura latina, come appare chiaramente dalle poesie adolescenziali. Due, in particolare, sono gli autori classici prediletti, Virgilio e Orazio; notevole è anche l’influsso di Dante e Petrarca, mentre tra i contemporanei, assieme al Monti, svolgono un ruolo importante Parini e Alfieri. Se si escludono gli esercizi di stile precedenti, le sue primissime esperienze poetiche risalgono alla metà del 1801, quando cominciò a stendere Del trionfo della libertà. Tuttavia vi si può riscontrare una vena satirica e polemica che avrà un ruolo non trascurabile nel Manzoni adolescente, pur venendo mitigata già a metà del decennio. Ci restano le traduzioni, in endecasillabi sciolti, di alcune parti del libro quinto dell’Eneide e della Satira terza (libro primo) di Orazio, accanto a un epigramma mutilo in cui attacca un certo fra’ Volpino che, sotto mentite spoglie, raffigura il vicerettore del collegio, padre Gaetano Volpini. Un giovane scapestrato Uscito dall’angusto mondo del Longone, visse dall’estate 1801 al 1805 con l’anziano padre don Pietro, alternando la vita di città con soggiorni alla tenuta di Caleotto, e dedicando buona parte del suo tempo al divertimento e in particolare al gioco d’azzardo, frequentando l’ambiente illuministico dell’aristocrazia e dell’alta borghesia milanese. Giocava nel ridotto del Teatro alla Scala, finché, sembra, un rimprovero del Monti lo convinse a rinunciare al vizio. Fu anche l’epoca del primo amore, quello per Luigina Visconti, sorella di Ermes. Di questa esperienza sappiamo quanto il poeta stesso rivelò nel 1807 in una lettera a Claude Fauriel. A Genova, infatti, l’aveva casualmente rivista, ormai sposata al marchese Gian Carlo Di Negro, e l’episodio aveva risvegliato in lui la nostalgia e il dispiacere di averla perduta. Oltre a questi svaghi, la giovinezza del Manzoni è contrassegnata anche da un soggiorno a Venezia (dall’ottobre 1803 al maggio 1804) presso il cugino Giovanni Manzoni, durante il quale ebbe modo di conoscere la nobildonna Isabella Teotochi Albrizzi, a suo tempo musa di Foscolo, e di scrivere tre dei quattro Sermoni. Non è chiaro il motivo del soggiorno veneziano, del quale Alessandro conservava anche ai tardi anni un bellissimo ricordo, ma non sembrano avere avuto un ruolo ragioni politiche: piuttosto vi entrò il desiderio del padre di allontanarlo da uno stile di vita dissipato. La Milano illuminista Il compiacimento neoclassico del tempo gli ispirò le prime composizioni di un qualche rilievo, modulate sull’opera di Vincenzo Monti, idolo letterario del momento. Ma, oltre questi, Manzoni si volge a Parini, portavoce degli ideali illuministi nonché dell’esigenza di moralizzazione, al poeta Ugo Foscolo, a Francesco Lomonaco, un esule lucano, e a Vincenzo Cuoco, assertore delle teorie vichiane, anche lui esule da Napoli dopo la restaurazione borbonica del 1799 e considerato il «primo vero maestro del Manzoni». La vicinanza all’ambiente neoclassico, e al suo campione Vincenzo Monti in particolare, spinsero il giovane Manzoni a frequentare alcuni corsi di eloquenza tenuti dal poeta romagnolo all’università di Pavia tra il 1802 e il 1803.Nei registri dell’ateneo il nome di Alessandro non risulta, ma è quasi certo che egli seguisse le lezioni montiane. Oltre alla nota ammirazione per il Monti e all’opinione di illustri studiosi, sembra convalidare l’ipotesi il carteggio del periodo. I corrispondenti di Manzoni, infatti, sono quasi tutti studenti (o vecchi studenti) dell’università, da Andrea Mustoxidi a Giovan Battista Pagani, da Ignazio Calderari a Ermes Visconti e a Luigi Arese. Il contesto accademico lo dovette mettere in contatto anche con due professori giansenisti, Giuseppe Zola e Pietro Tamburini, docenti rispettivamente di «storia delle leggi e dei costumi» e di «filosofia morale, diritto naturale e pubblico». Le loro idee in difesa della morale lo influenzarono molto, oltre a introdurlo per la prima volta al pensiero giansenista. Tamburini condannava la Curia romana per le sue deformazioni ma vedeva nel cattolicesimo un imprescindibile modello. Per l’elevatezza delle sue dissertazioni parve a Manzoni un punto di riferimento al pari di Zola, definito «sommo» in una lettera al Pagani del 6 settembre 1804. Dal punto di vista letterario, a questo periodo si devono Del trionfo della libertà, Adda e I quattro sermoni che recano l’impronta di Monti e di Parini, ma anche l’eco di Virgilio e Orazio. Il soggiorno parigino (1805-1810) La morte di Carlo Imbonati e il ricongiungimento con la madre Nel 1805 Manzoni venne invitato dalla madre e da Carlo Imbonati a Parigi, a quanto pare dietro suggerimento del Monti. Alessandro accettò con entusiasmo, ma non fece in tempo a conoscere il conte– alla cui missiva rispose nel marzo, con parole di calore e riconoscimento che Imbonati non lesse mai -, il quale morì il 15 marzo, lasciando la Beccaria ereditiera universale del suo patrimonio ma anche affranta e bisognosa dell’amore filiale. Il giovane, ora ventenne, giunse nella capitale francese il 12 luglio, giorno in cui la polizia locale gli rilasciava il permesso di soggiorno. Uniti entrambi nel dolore, Manzoni, che per lo scomparso scrisse l’ode In morte di Carlo Imbonati, scoprì di avere una madre: le loro strade, divise sino ad allora, si incrociarono per non lasciarsi più. Fino al 1841, anno della morte della Beccaria, i due instaurarono un rapporto strettissimo la cui profondità emerge dalle lettere dello scrittore in numerosissime occasioni. Già il 31 agosto 1805 rivelava a Vincenzo Monti di aver trovato «la mia felicità […] fra le braccia d’una madre», e di non vivere che «per la mia Giulia». Il circolo parigino: gli Idéologues e Claude Fauriel Con la madre soggiornò al numero 3 di Place Vendôme. Molto spesso, però, madre e figlio si recavano ad Auteuil, cittadina ove si riuniva il circolo intellettuale sotto il patronato della vedova del filosofo Helvétius, e alla Maisonnette di Meulan, dove passò due anni, partecipando al circolo letterario dei cosiddetti Idéologues, filosofi di scuola ottocentesca eredi dell’illuminismo settecentesco ma orientato verso tematiche concrete nella società, e anticipatori per questo di tematiche romantiche (quali l’attenzione alle classi povere, alle emozioni). Un ruolo importante nel gruppo degli Idéologues (costituito, tra gli altri, da Volney, Garat, Destutt de Tracy e il danese Baggesen) era ricoperto da Claude Fauriel, col quale Alessandro strinse una duratura amicizia per molti anni, una frequentazione facilitata anche dal legame che c’era tra Giulia e l’amante di Fauriel, Sophie de Condorcet, e dal più anziano Pierre Cabanis, autore della Lettre sur les causes premières, testo orientato in senso spiritualista, impregnato di spirito religioso, per quanto l’Essere supremo di cui si ammette l’esistenza non coincida completamente con il Dio cristiano secondo la concezione della Chiesa. A Parigi, dunque, Alessandro entra in contatto con la cultura francese classicheggiante, assimilando il sensismo, le teorie volterriane e l’evoluzione del razionalismo verso posizioni romantiche. Ci sono rimaste poche lettere relative agli anni 1805-1807, e non è pertanto possibile definire con precisione la rilevanza – per Manzoni – di tutti i testi e gli autori che il poeta lombardo conobbe o approfondì nei primi anni francesi. Fauriel e Cabanis emergono tuttavia come i due principali punti di riferimento, e una certa importanza dovette avere anche Lebrun, riconosciuto, in una lettera al Pagani del 12 marzo 1806, «grand’uomo», «poeta sommo» e «lirico trascendente». Potrebbero essere anche parole di circostanza, dettate da un’amicizia ancor fresca e dalla riconoscenza per le parole di elogio che «Pindare Lebrun» gli aveva rivolto, omaggiandolo di un suo componimento. Lo stile del poeta francese, improntato a un classicismo enfatico e di maniera, non pare in effetti conciliarsi con la poetica manzoniana, ma il poemetto Urania (ideato tra il 1806 e il 1807 e poi stancamente portato a compimento negli anni successivi) ne recherà parzialmente l’impronta. L’intermezzo italiano (1806-1807) e la morte di don Pietro Intanto, madre e figlio lasciarono una prima volta Parigi nel giugno 1806, per sistemare le ultime pratiche legali relative all’eredità dell’Imbonati, nella quale figurava anche la villa di Brusuglio. A settembre, comunque, erano già di ritorno in Francia, come dimostra una lettera di Manzoni a Ignazio Calderari; una missiva di Carlo Botta, scritta il 18 giugno, permette invece di stabilire la data della partenza da Parigi: «Madame Beccaria part demain matin pour le Piémont» (la signora Beccaria parte domattina per il Piemonte). Al febbraio 1807 risale il secondo spostamento: la lettera al Fauriel, scritta il 17, testimonia che quel giorno il Manzoni era a Susa e aveva passato il Moncenisio, e, sempre tramite testimonianze epistolari, sappiamo che il mese successivo era a Genova; sulla permanenza genovese ci informa un certo commissario Cometti, che il 16 marzo scrive di aver assistito a una rappresentazione teatrale in compagnia di Manzoni e della madre. Il 20 marzo, quando era in procinto di partire per Torino venne a sapere che il padre era gravemente malato (ma in realtà era già morto da due giorni), e durante il tragitto che lo conduceva a Milano, il figlio apprese della sua morte. Sembra che Giulia e Alessandro non siano entrati in città, preferendo trascorrere alcuni giorni nella nuova proprietà di Brusuglio, per poi riattraversare le Alpi. Le parole con cui affronta la scomparsa del padre, nelle lettere, paiono piuttosto fredde, per quanto nella missiva al Fauriel dell’8 aprile, venti giorni dopo il funerale, rivolgesse a Pietro un ultimo augurio: «Paix et honneur à sa cendre» (pace e onore alle sue ceneri); nella lettera a Pagani, scritta il 24 marzo, giorno in cui apprese la notizia del decesso, fa riferimento al motivo «ben doloroso» che lo aveva chiamato a Milano (ma pare non entrasse in città e non prendesse parte ai funerali), per poi proseguire con altri argomenti, come la soddisfazione di rivedere l’amico Calderari e l’affetto per la madre, «parlando della quale troverò sempre più ogni espressione debole e monca». Alessandro, nominato dal padre erede universale, a maggio era nuovamente a Parigi. Il matrimonio e la nascita di Giulia Da tempo Giulia Beccaria andava cercando una sposa per il figlio. Il viaggio primaverile del 1807 era stato fatto anche con questo obiettivo, divenuto ora preminente. Dopo che il progetto di fidanzare Alessandro con Augustine, figlia del filosofo Destutt de Tracy, fallì a causa del basso grado di nobiltà dei Manzoni, la Beccaria conobbe a Parigi Charlotte Blondel, imparentata con la famiglia calvinista del banchiere ginevrino François Louis Blondel. Blondel viveva a Milano con la moglie Marie e la figlia sedicenne Enrichetta nel palazzo Imbonati, che il conte gli aveva venduto anni addietro. Tramite Charlotte furono avviati i contatti, e in settembre i Manzoni partirono alla volta della città meneghina per fare la conoscenza di Enrichetta – di cui erano state fornite ottime referenze – e dei genitori. L’incontro, avvenuto a Blevio nel tardo settembre del 1807, non disattese le speranze. Manzoni rimase incantato dalla dolcezza e purezza della fanciulla e il matrimonio, che si rivelerà molto felice e sarà coronato dalla nascita di dieci figli, fu celebrato il 6 febbraio 1808 a Milano, prima con rito civile presso il Municipio e, quarantacinque minuti più tardi, con rito calvinista in via del Marino, dove si trovava la casa dei Blondel. Sistemate infine le ultime questioni legate all’eredità dell’Imbonati, i novelli sposi, accompagnati da Giulia, si stabilirono al numero 22 del Boulevard des Bains Chinois, a Parigi. Nello stesso anno, Il 23 dicembre, nacque la primogenita Giulia Claudia, che fu battezzata il 23 agosto del 1809 nella chiesa giansenista di San Nicola in località Meulan, secondo il rito cattolico e con Fauriel come padrino. La decisione di battezzare la primogenita da parte di un padre indifferente dal punto di vista religioso e da una madre calvinista è l’indice di un cambiamento radicale nella sensibilità spirituale della famiglia Manzoni. La conversione: un dibattito aperto La questione della conversione al cattolicesimo di Manzoni è una tematica su cui non solo i critici, ma anche i conoscenti e i famigliari del Manzoni hanno sempre discusso, ottenendo risposte aleatorie da parte dell’autore de I promessi sposi, riserbo che rende ogni studio critico inevitabilmente opinabile e incompleto. L’importanza della conversione, fondamentale per comprendere l’evoluzione tematica e spirituale del Manzoni del «quindicennio creativo», è dettata soprattutto dalla leggenda agiografica che vorrebbe una sua conversione repentina, dovuta allo smarrimento di Enrichetta nel 1810. In realtà, il percorso che ricondusse il giovane Alessandro e la sua famiglia alla pratica religiosa cattolica fu ben più lungo, dovuto a una serie di fattori combinati fra di loro. Le due lettere al Calderari (1806) Una certa importanza rivestono due lettere che Manzoni inviò a Ignazio Calderari in merito alla malattia che condusse alla morte il loro comune amico Luigi Arese. Nella prima, del 17 settembre 1806, si duole che al posto delle persone care, il morituro debba avere al proprio capezzale «l’orribile figura di un prete», ma il 30 ottobre, dopo la morte dell’Arese, sempre al Calderari esclama: «Oh sì! ci rivedremo! Se questa speranza non raddolcisse il desiderio dei buoni e l’orrore della presenza dei perversi, che sarebbe la vita?». Da un lato, viene confermata la reazione anticlericale ravvisata nelle prime opere, ma al tempo stesso, come emerge ugualmente dalle prime opere, Manzoni dimostra di conformarsi allo spirito cristiano, prefigurando un’esistenza dopo la morte. La supplica a Pio VII Dopo il battesimo cattolico di Giulia nell’agosto del 1809, Manzoni, d’accordo con la moglie, indirizzò una supplica a papa Pio VII affinché, «pentito del fallo commesso», l’autorità pontificia ponesse «un opportuno riparo, capace di rendere tranquilla la di lui coscienza [del supplicante, cioè del Manzoni]», rendendo possibile celebrare nuovamente il matrimonio, questa volta secondo il rito cattolico. Nel mese di novembre giunse l’autorizzazione papale con un rescritto del cardinale Di Pietro datato al 30 ottobre, e il 15 febbraio 1810, nella casa di Ferdinando Marescalchi, il curato della chiesa della Madeleine officiava la funzione. Degola e San Rocco (1809-1810) All’inizio del 1809 i Manzoni avevano fatto conoscenze importanti, forse decisive nell’orientare Alessandro verso la pratica religiosa. Pierre Jean Agier, presidente della Corte d’appello parigina, Giambattista Somis, già consigliere della Corte di appello di Torino, Ferdinando Marescalchi, ministro delle Relazioni estere del Regno d’Italia napoleonico, e Anne Marie Caroline Geymüller, una donna di Basilea rimasta vedova di un ufficiale della guardia svizzera del re Luigi XVI, facevano parte di un ambiente fortemente cattolico e giansenista. Quest’ultima, inoltre, aveva abiurato il calvinismo nel 1805 per opera di un abate genovese giansenista che i Manzoni conosceranno proprio nell’autunno del 1809, Eustachio Degola, il quale rivestì un’enorme importanza per la conversione di Alessandro e della famiglia. La conversione del Manzoni, però, è ben più nota per il cosiddetto “miracolo di San Rocco”. Il 2 aprile 1810, durante i festeggiamenti per le nozze di Napoleone e Maria Luisa d’Austria, improvvisamente scoppiarono dei mortaretti e la folla che riempiva le strade, presa dal panico, separò dalla moglie il Manzoni il quale, sospinto dalla gente in fuga, si ritrovò sui gradini della Chiesa di San Rocco, in rue Saint-Honoré, e si rifugiò in essa. Nel silenzio e nella serenità di quel tempio egli implorò la grazia di ritrovare la consorte e all’uscita, convertito, poté riabbracciarla. Un’altra versione, riportata da Giulio Carcano, racconta invece di un Manzoni frustrato che, assillato da dubbi spirituali, si sarebbe recato in San Rocco gridando: «O Dio! Se tu esisti, rivelati a me!», uscendone poi credente. Degola e i rapporti con i Manzoni Inizialmente il sacerdote ebbe il compito di preparare Enrichetta Blondel all’abiura del calvinismo, chiedendole di scrivere dei riassunti delle lezioni di religione cattolica (chiamati ristretti), affinché fossero poi corretti dallo stesso abate genovese. L’abiura, poi, fu sottoscritta in un atto ufficiale il 3 maggio 1810 e celebrata solennemente il 22 maggio nella Chiesa di Saint-Séverin, alla presenza del circolo giansenista e dell’abate Degola. L’ascendenza del prete giansenista è comunque innegabile: rimane a testimoniarlo il pluriennale carteggio che il sacerdote genovese intrattenne con Manzoni, con la moglie e con Giulia Beccaria. È relativamente facile ricostruire i passaggi attraverso cui la Blondel si convertì al cattolicesimo, ma non è chiaro perché ciò avvenisse. Probabilmente il Manzoni, che era «un animo non veramente ribelle», accettava con fastidio un matrimonio non benedetto e aver dovuto ammettere questa situazione, quando la figlia fu iscritta nel registro dei battesimi, dovette metterlo a disagio. Il ritorno in Italia (1810-1812) Tra via del Morone e Brusuglio. La famiglia Quanto lo spirito del Manzoni fosse cambiato negli ultimi mesi della permanenza parigina, o meglio, quanto fosse in contraddizione con i valori e i modelli precedenti, è difficile dire. Sicuramente la grande città francese, capitale del bel mondo e degli intellettuali del momento, non esercitava più alcun fascino su di lui. Bisognoso di tranquillità, Manzoni lasciò Parigi con la famiglia il 2 giugno, diretto a Brusuglio, dove giunse, nonostante alcuni inconvenienti, qualche settimana più tardi. Li doveva, però, aspettare la collera della famiglia Blondel, adirata per la conversione di Enrichetta al cattolicesimo, un risentimento che non diminuì con il passare degli anni. Al ritorno dalla Francia, i Manzoni alternarono periodi a Brusuglio e in città, dimorando nella villa fuori porta quando veniva la bella stagione, ove Alessandro si dedicava all’agricoltura. A Milano, si stabilirono per quasi due anni al numero 3883 di via S. Vito al Carobbio, per poi trascorrere un anno nel palazzo dei Beccaria, in via Brera, finché il 2 ottobre 1813 il poeta acquistò una casa in via del Morone, al numero 1171 (oggi 1). Manzoni era sempre stato abituato a vivere in mezzo al verde: la nuova dimora, che dava su piazza Belgioioso, aveva «un giardino proprio interno, con certo quale sentore di chiostro, assolutamente quel che ci voleva per l’indole del Manzoni». In via del Morone l’autore avrebbe trascorso il resto della propria vita. Nel corso degli anni seguenti i membri della famiglia Manzoni, che alternavano la loro residenza tra il palazzo cittadino e la villa di Brusuglio, crebbero di numero. Dopo la morte di Luigia, nata e morta nello stesso giorno (5 settembre 1811), il 21 luglio 1813 vide la luce in via Brera il primo figlio maschio, Pietro Luigi. Il 25 luglio 1815, la casa di via del Morone fu allietata dalla nascita di Cristina. Nel giro di pochi anni vennero al mondo anche Sofia (12 novembre 1817), Enrico (7 giugno 1819), Clara, vissuta due anni, nell’agosto 1821; 13 mesi dopo, Vittoria, Filippo nel marzo 1826 e Matilde nel maggio 1830. Da Degola a Luigi Tosi: la nuova guida spirituale Prima di partire, i Manzoni avevano chiesto al sacerdote giansenista di indicar loro una persona degna di fiducia che potesse continuare la sua opera di assistenza spirituale. Il 30 maggio Degola scriveva una lettera di raccomandazione per don Luigi Tosi, canonico di Sant’Ambrogio e anch’egli giansenista. Sia Giulia che Alessandro ebbero del Tosi un’ottima impressione, come può evincersi dalle parole di Alessandro: «Il degnissimo Canonico Tosi fu visitato da mia madre e me […], e fu trovato un vero amico del Degola; e questo basti per suo elogio». Il sacerdote si recava anche a Brusuglio, quando la famiglia vi soggiornava, e mantenne la sua funzione di guida spirituale per molti anni, anche dopo la sua elezione a vescovo di Pavia, avvenuta nel 1823. Ad Alessandro, come alla moglie e alla madre, non era ancora stato amministrata l’eucaristia. Dopo una breve preparazione, Manzoni si confessò il 27 agosto e il 15 settembre, assieme a Giulia ed Enrichetta, si accostò per la prima volta alla Comunione, anche se il percorso di conversione completa fu ancora molto lungo. Infatti, nell’agosto 1811, il neofita inviava a Degola e Tosi delle lettere, in cui chiedeva rispettivamente di pregare «perché piaccia al Signore scuotere la mia lentezza nel suo servizio e togliermi da una tepidezza che mi tormenta, e mi umilia», e affermava che «malgrado la mia profonda indegnità sento quanto possa in me operarne [di bene] la Onnipotenza della Divina Grazia». Il quindicennio creativo (1812-1827) Introduzione Espressione ormai adottata dalla critica letteraria, il quindicennio creativo suole indicare quell’arco temporale in cui Manzoni, ormai convertito al cattolicesimo e alle idee romantiche, si prodigò nella stesura delle sue opere letterarie principali, spaziando dalla poesia sacra a quella civile, dai saggi filosofico-religiosi alle tragedie, per giungere infine alla stesura del primo grande romanzo della storia della letteratura italiana. In tutti questi generi, Manzoni apportò elementi nuovi e rivoluzionari rispetto alla tradizione letteraria: gli Inni Sacri rivelano la coralità della poesia cristiana manzoniana; le tragedie, in nome della verosimiglianza, si slegano dalle unità aristoteliche e rivelano quell’interesse progressivo per i sentimenti umani che troveranno piena espressione nel romanzo. Gli Inni Sacri D’ora in avanti, la sua vita e la sua arte saranno pienamente conformi alla fede e alla necessità di divulgarla con l’esempio e con le opere. Nel 1812 cominciò la stesura degli Inni sacri: l’autore voleva scrivere nell’ordine Il Natale, L’Epifania, La Passione, La Risurrezione, L’Ascensione, La Pentecoste, Il Corpo del Signore, La Cattedra di San Pietro, L’Assunzione, Il Nome di Maria, Ognissanti e I Morti, ma ne portò a termine solo cinque: La Risurrezione, Il nome di Maria, Il Natale, La Passione e La Pentecoste. I primi quattro furono scritti tra l’aprile 1812 e l’ottobre 1815 e pubblicati in un volumetto presso l’editore milanese Pietro Agnelli alla fine del 1815, mentre la stesura de La Pentecoste, iniziata nel 1817, fu completata solo cinque anni più tardi, rallentata da altre opere cui l’autore attese nei medesimi anni, tra cui spiccano le due tragedie e la prima versione del romanzo. L’Ognissanti (1830-1847) restò in stato di frammento, come altre possibili aggiunte agli Inni (Il Natale del 1833 e il brevissimo Dio nella natura). La poesia religiosa del Manzoni è infine completata dalle Strofe per una Prima Comunione. L’intenzione dell’autore è quella di una poesia popolare, da cui lo stile talvolta si allontana perché ancora influenzato dalla formazione neoclassica, per poi ritornare alla comunità dei credenti (l’ecclesia cristiana) che innalza, insieme al poeta, un canto di lode a Dio, unica sicurezza contro il male sempre imperante nella Storia. Questa dimensione corale emerge soprattutto nella Pentecoste, ove i «figli d’Eva» (v. 71), sparsi in tutto il mondo, trovano unità nella fede in Dio. Il 1814 e le Odi civili Mentre Manzoni elaborava gli Inni Sacri, la situazione politica italiana e internazionale si stava velocemente deteriorando: Napoleone, fortemente debilitato dopo la disastrosa campagna di Russia del 1812, crollava nella grande battaglia di Lipsia del 1813. Di conseguenza, anche gli Stati satelliti francesi, tra cui il Regno d’Italia, caddero sotto i colpi della coalizione austro-russa, obbligando Eugenio di Beauharnais a fuggire da Milano e permettendo così agli austriaci di rientrare in Lombardia dopo vent’anni di assenza. Manzoni vive questi momenti drammatici con grande angoscia, assistendo dal suo palazzo di via del Morone, il 20 aprile 1814, al linciaggio del ministro delle finanze Giuseppe Prina, la cui violenza (deplorata vivamente dal Manzoni) viene narrata dal poeta milanese in una lettera indirizzata al Fauriel. A parte l’episodio del Prina, Manzoni partecipò intensamente al tentativo di mantenere indipendente l’Alta Italia con un regno il cui re sarebbe stato proprio il Beauharnais, sottoscrivendo una petizione presso le grandi potenze vittoriose riunitesi a Parigi. Poeticamente, invece, il Manzoni contribuì all’effimero sentimento patriottico con la stesura di due canzoni entrambe rimaste incompiute: Aprile 1814 (sette strofe scritte tra il 22 aprile e il 12 maggio 1814), in cui si rievoca il terremoto politico milanese in chiave patriottica e la denuncia verso la politica napoleonica; e Il proclama di Rimini (aprile 1815), ove Manzoni riflette sull’omonimo discorso tenuto dall’ex re di Napoli Gioacchino Murat per la difesa dell’Italia, e inquadrandolo come un Liberatore inviato da Dio per sottrarre gli italiani alla schiavitù. Manzoni e il dibattito tra classicisti e romantici Gli anni successivi alla conversione furono assai significativi per il panorama letterario e culturale italiano. L’Italia, ancorata a una salda tradizione classicista grazie ai magisteri passati di autori quali Parini e Alfieri, e attuali quali quello del Monti, fu costretta a confrontarsi con la nuova temperie romantica europea. Nel gennaio del 1816, infatti, l’intellettuale francese Madame de Staël pubblicò, sul primo numero del giornale letterario la Biblioteca Italiana, un articolo intitolato Sulla maniera e utilità delle traduzioni, in cui attacca l’ostinato ancoraggio degli italiani a una vacua retorica, ignorando invece le novità letterarie provenienti dalla Germania e dall’Inghilterra. Alla successiva querelle tra classicisti (capeggiati da Pietro Giordani) e romantici (tra i quali spiccano Ludovico di Breme e Giovanni Berchet), Manzoni non partecipò attivamente. Benché fosse apertamente dalla parte dei romantici (l’ode L’ira di Apollo testimonia, in chiave ironica, l’ira del dio della poesia pagano per essere stato escluso dai testi poetici) e partecipasse alla Cameretta letteraria animata da Ermes Visconti, Gaetano Cattaneo, Tommaso Grossi e, soprattutto, dal poeta dialettale Carlo Porta, Manzoni si rifiutò di collaborare apertamente sia alla Biblioteca Italiana che al successore della prima rivista, Il Conciliatore. Oltre all’interesse sempre crescente per la formulazione di una poetica cristiana e l’inizio delle indagini sul genere teatrale, furono determinanti anche la nevrosi depressiva che colpì Manzoni, per la prima volta, nel 1810 (in occasione dello smarrimento di Enrichetta) e, in modo sempre più debilitante, negli anni successivi: questo e la sua difficoltà a parlare in pubblico avevano minato i suoi rapporti interpersonali, costringendolo a una vita tranquilla e ritirata nei suoi possedimenti di Brusuglio o nella quiete del suo palazzo milanese. La produzione teatrale Decisiva fu l’impronta che Manzoni lasciò nella storia del teatro italiano. Dopo la stagione alfieriana, Manzoni intervenne sulla struttura e la finalità stessa del dramma, il quale non deve impegnarsi a descrivere il verosimile (fattore che esclude l’artificiosità delle unità aristoteliche) e i moti dell’anima dei protagonisti, campo d’indagine proprio del poeta e non degli storici di professione, come emerge dalla Lettera a Monsieur Chauvet del 1820. I frutti di tali riflessioni teoriche si possono cogliere nelle tragedie Il Conte di Carmagnola, la cui stesura fu rallentata a causa dei già noti problemi di natura nervosa che affliggevano l’autore e dell’impegno riversato nelle Osservazioni sulla morale cattolica e nella Pentecoste. La seconda tragedia, l’Adelchi, invece, fu edita nel 1822, mentre cominciava a profilarsi, nella mente di Manzoni, la visione narrativa del romanzo. La crisi del 1817 e le Osservazioni sulla morale cattolica (1818-1819) Nella primavera del 1817 Manzoni era andato incontro a una breve crisi spirituale,, determinata da più fattori, in particolare dall’appoggio della Chiesa alla Restaurazione: il liberale Manzoni non concepiva il conflitto tra la religione cristiana, in cui fermamente credeva, e l’orientamento politico della Chiesa Cattolica che non condivideva. La delusione che ne derivò portò all’acuirsi della sua malattia nervosa e a un conseguente raffreddamento nella pratica religiosa, come si evince da una lettera di Tosi al Degola, in cui il padre spirituale dello scrittore comunicava il superamento della crisi (14 giugno 1817). Anche con il futuro vescovo di Pavia c’era stato un piccolo scontro, presto dimenticato, quando Manzoni gli aveva manifestato il desiderio di tornare per un periodo a Parigi, incontrando un’opposizione che gli parve esagerata. Il sacerdote ravvisava infatti nel trasferimento un pericolo per la fede del discepolo, desideroso, al contrario, di rivedere Fauriel, e speranzoso di trarre beneficio per i propri disturbi nervosi. Manzoni chiese ugualmente di poter partire, ma in maggio la polizia gli negò i passaporti. Accantonata provvisoriamente l’ipotesi parigina, Manzoni interruppe il Conte di Carmagnola ritirandosi in campagna, dove si immerse nella lettura di testi filosofici che saranno alla base delle Osservazioni sulla morale cattolica. Le postille manzoniane agli autori studiati sono utili per determinare quali libri affrontasse in quei mesi e per scoprire come lo scrittore li giudicasse. Le postille a Locke, a Condillac e a Destutt de Tracy provano la distanza di Manzoni dal loro pensiero, ma la sua attenzione, nel preparare le Osservazioni, andò soprattutto all’Histoire des Républiques Italiennes di Sismondi, il cui sedicesimo e ultimo volume uscì a Parigi nel 1818. L’opera, che era stata la fonte principale della tragedia, recava nell’ultimo tomo delle violente accuse contro il cattolicesimo, suscitando nel canonico Tosi una reazione indignata, chiedendo così a Manzoni di controbattere: quest’opera apologetica vide le stampe nel 1819, pubblicata col titolo Sulla Morale Cattolica, osservazioni di Alessandro Manzoni, Parte prima. Il secondo soggiorno parigino (1819-1820) Già dal 1817, Manzoni pensava di ritornare a Parigi, luogo felice della giovinezza ove sperava di poter guarire dalle crisi di nervi di cui soffriva sempre più in modo accentuato. I preparativi per la partenza, però, furono sempre rimandati a causa della difficoltà di ottenere i passaporti da parte delle autorità austriache. Solamente nel 1819 Manzoni li ottenne, e con l’intera famiglia partì per la Francia il 14 settembre. Nella capitale francese, Manzoni frequentò lo storico Augustin Thierry e il filosofo Victor Cousin. La conoscenza di Thierry ebbe un’influenza importante sulla concezione manzoniana della storia, e una certa rilevanza ebbe anche lo spiritualismo di Cousin. Benché le idee di quest’ultimo non fossero del tutto eterodosse in materia di religione, affermazioni quali «Sans Dieu, l’homme et la nature restent un mystère» (senza Dio, l’uomo e la natura restano un mistero), oppure «La loi suprème, c’est […] la sainteté, le dévouement, la charité, l’amour du prochain; c’est surtout l’amour de Dieu» («La legge suprema consiste […] soprattutto nella santità, nella devozione, nella carità, nell’amore per il prossimo; si manifesta soprattutto nell’amore di Dio»). Manzoni, però, non trovò giovamento dal soggiorno parigino: le crisi di nervi non erano infatti passate, e cominciava a provare nostalgia di casa. Pertanto, dopo appena un anno, il 25 luglio partì da Parigi con tutta la famiglia per rientrare a Milano l’8 agosto. Passata l’estate, Alessandro iniziò gli anni più frenetici del quindicennio creativo, in cui elaborò quei concetti religiosi/provvidenzialistici che troveranno il culmine nell’Adelchi e nel Cinque maggio, basi fondamentali per l’economia de I promessi sposi, insieme all’inizio della riflessione linguistica, strutturale e artistica del genere del romanzo stesso. Il biennio 1820-1822: le basi del romanzo A partire dal novembre del 1820, infatti, Manzoni cominciò a stendere la tragedia dell’Adelchi. Concluso un primo abbozzo entro la primavera del 1821, improvvisamente Manzoni se ne distolse per riprendere in mano la poesia civile con la stesura di Marzo 1821, celebrante la presunta invasione del Lombardo-Veneto da parte delle truppe sardo-piemontesi dopo l’abdicazione di Vittorio Emanuele I. L’opera lirica (stesa tra il 15 e il 17 marzo), rispetto alle odi di sette anni prima, rivela una maggior compattezza strutturale e sicurezza sia nel tono del linguaggio, sia nel trattare gli stati d’animo dei patrioti italiani. Scemata l’euforia generale dopo il fallimento dei moti del 1820-1821, Manzoni rimise mano all’Adelchi, cominciando a leggere, come per il Conte di Carmagnola, varie fonti storiche (rielaborate nel coevo saggio storico intitolato Discorso sopra alcuni punti della storia longobardica in Italia) perché ci fosse un’aderenza tra il vero storico (cioè gli eventi storici realmente accaduti) e il vero poetico (cioè l’inventio narrativa dello scrittore), concezione della storia appresa alla scuola di Thierry e degli idéologues. L’anno 1821, però, fu pregno di eventi significativi per la storia italiana ed europea: oltre ai moti sopracitati, infatti, il 5 maggio moriva sull’Isola di Sant’Elena l’esiliato Napoleone Bonaparte, notizia che però giunse in Europa soltanto nel mese di luglio. Manzoni aveva letto della scomparsa dell’ex imperatore dei francesi, infatti, su di un articolo della Gazzetta di Milano del 17 luglio 1821, e ne rimase profondamente turbato: il nobile meneghino era affascinato dal titanismo, dal carisma e dal genio militare di Napoleone, e immediatamente si accinse a stendere un’ode che ne ripercorresse la vita. Fu così che, tra il 18 e il 20 luglio, Manzoni compose Il cinque maggio, in cui la grandezza di Napoleone non risiede nelle sue imprese terrene, quanto nell’aver compreso, attraverso le sofferenze dell’esilio, la vanità delle glorie passate e l’importanza assoluta della salvezza. Il parallelo con le vicende di Adelchi e di Ermengarda, dimostra l’intreccio elaborativo di questi mesi, e della formulazione di quella provvida sventura che sarà alla base del romanzo. Dal Fermo e Lucia a I promessi sposi (1822-1827) Manzoni iniziò a dedicarsi alla scrittura di un romanzo a partire dall’autunno del 1821, ma la stesura vera e propria del Fermo e Lucia era iniziata il 24 aprile 1821, dopo aver letto l’Ivanhoe tradotto in francese. Nella quiete della sua villa di Brusuglio, Manzoni iniziò a scrivere il suo romanzo dopo aver quindi iniziato la lettura dei romanzi europei, specialmente inglesi, in quanto la letteratura italiana si era concentrata su altre tipologie di generi prosaici. Oltre a Walter Scott Manzoni, seguendo la metodologia già adottata per le tragedie, cominciò un vero e proprio lavoro di documentazione storica, basato sulla lettura della Historia patria di Giuseppe Ripamonti e dell’Economia e statistica di Melchiorre Gioia. In base alle postille lasciate dal Manzoni, la prima minuta del Fermo e Lucia (titolo suggerito dall’amico Ermes Visconti, come testimoniato in una lettera del 3 aprile 1822), consisteva in un foglio protocollo diviso in due colonne: a sinistra Manzoni scriveva il testo, mentre sulla destra riportava le correzioni. La seconda fase di stesura del romanzo, dovuta all’ultimazione dell’Adelchi e alla stesura del Cinque maggio, terminò il 17 novembre 1823 e il manoscritto fu edito nel 1825. Il passaggio dal Fermo e Lucia, la cui struttura narrativa risultava poco armonica a causa della divisione in tomi e di ampie parti narrative dedicate a suor Gertrude, a I promessi sposi fu alquanto travagliato per la ridefinizione dell’architettura dell’opera. Oltre al problema espositivo, Manzoni si accorse del linguaggio artificioso e letterario da lui usato, elemento non rispondente alle esigenze realistiche cui tendeva la sua poesia. Scegliendo il toscano come lingua colloquiale per i suoi personaggi, pubblicò la cosiddetta ventisettana (nome dato alla prima edizione de I promessi sposi) ma, consapevole della necessità di ascoltare direttamente l’eloquio di quella regione, decise di partire per Firenze. Il viaggio in Toscana (1827) Il Gabinetto Vieusseux e le basi della Quarantana Nel 1827 Manzoni si trasferì a Firenze per dare vita alla stesura finale del romanzo a livello formale e stilistico, in modo da entrare in contatto e “vivere” la lingua fiorentina delle persone colte, che rappresentava per l’autore l’unica lingua dell’Italia unita. Il viaggio, iniziato il 15 luglio, vide l’intera famiglia Manzoni (i figli, l’anziana madre Giulia e la moglie Enrichetta) passare per Pavia (dove si fermarono per salutare il canonico Tosi, divenuto vescovo della città), Genova, Lucca, Pisa e infine, il 29 agosto, nella capitale del Granducato di Toscana. Il soggiorno, che durerà fino a ottobre, fu un trionfo per don Alessandro: i membri del Gabinetto Vieusseux (con in testa Niccolò Tommaseo, lo stesso Giovan Pietro Vieusseux, Giovanni Battista Niccolini e Gino Capponi) gli vennero incontro con tutti gli onori, e anche lo stesso Giacomo Leopardi, che non ammirava né condivideva l’ideologia e la poetica del Manzoni, lo salutò cordialmente. La fama de I promessi sposi superò presto i confini dei circoli letterari, giungendo presso la stessa corte granducale, ove Leopoldo II in persona ricevette il romanziere. Durante questi incontri (impegnativi per Manzoni, per via dei suoi problemi nervosi), don Alessandro approfondì la sua indagine linguistica, avvalendosi del contatto diretto sia con la nobiltà fiorentina, sia con il popolo, notando la somiglianza della terminologia utilizzata dalle due classi. Il frutto di tali osservazioni fu fondamentale per la scelta del fiorentino (in luogo del generico toscano) come lingua quotidiana per i personaggi del suo romanzo, scelta che portò, nel corso degli anni trenta, a rivedere i suoi promessi sposi, pubblicandoli definitivamente nel 1840 (da qui il nome di Quarantana) insieme alla Storia della colonna infame, un saggio che riprende e sviluppa il tema degli untori e della peste, che già tanta parte aveva avuto nel romanzo, del quale inizialmente costituiva un excursus storico. Gli anni del silenzio (1827-1873) I primi lutti familiari e il secondo matrimonio La quiete famigliare su cui Manzoni aveva instaurato il proprio regime di vita quotidiana, basato sull’affetto che Enrichetta, la madre e i figli nutrivano per lui, si frantumò a partire dagli anni trenta, allorché lo colpirono i primi lutti famigliari: il primo fu quello per l’adorata moglie Enrichetta, morta il 25 dicembre 1833 di tabe mesenterica, malattia contratta a seguito delle numerose gravidanze. Il dolore di Manzoni fu tale che, quando nel 1834 cercò di scrivere Il Natale del 1833, non riuscì a completare l’opera. Dopo Enrichetta, Manzoni vide morire l’adorata figlia primogenita Giulia, già moglie di Massimo d’Azeglio, il 20 settembre del 1834. Il 2 gennaio 1837, grazie agli uffici della madre e dell’amico Tommaso Grossi, sposò Teresa Borri, vedova del conte Decio Stampa e madre di Stefano, figura cui il Manzoni fu molto legato. La nuova moglie di Manzoni, al contrario di Enrichetta, era dotata di una forte personalità e di una buona cultura letteraria. A causa del suo carattere forte e protettivo nei confronti dell’adorato marito, Teresa entrò presto in conflitto sia con l’anziana suocera, sia con lo stesso Grossi, che dovette abbandonare il palazzo di via del Morone dove abitava da più di vent’anni. Gli anni successivi furono ancora costellati dalla morte di molti dei suoi cari: della figlia Cristina (27 maggio 1841), seguita due mesi dopo dalla madre Giulia Beccaria (7 luglio) e, infine, dell’amico Fauriel (1844). Il 1848 e l’esilio a Lesa: Antonio Rosmini e la critica al romanzo Milano, come le altre grandi città europee, non fu immune dalle rivolte che esplosero in tutta Europa: durante le famose cinque giornate di Milano i patrioti riuscirono a scacciare, seppur momentaneamente, gli austriaci del feldmaresciallo Radetzky dalla città. Tra questi uomini imbevuti dell’epos risorgimentale c’era anche il figlio ventiduenne del Manzoni, Filippo, che finì incarcerato all’inizio dei combattimenti. Se il figlio combatteva sulle barricate, il padre Alessandro pubblicò quelle odi politiche (Aprile 1814 e Marzo 1821) che, per timore della rappresaglia austriaca, non aveva mai edito. Al momento del rientro di Radetzky, Manzoni, timoroso di subire delle ripercussioni per il suo sostegno “morale” alla causa risorgimentale, si rifugiò a Lesa, dove la moglie Teresa aveva una villa. Il soggiorno di Lesa, che durerà fino al 1850, non fu un esilio infecondo: a Stresa, non molto lontano, viveva il grande filosofo e sacerdote Antonio Rosmini, conoscente del Manzoni già dal 1827. Il ritiro sul lago Maggiore servì allo scrittore per conoscere meglio l’animo e il pensiero del Rosmini, del quale apprezzò profondamente la personalità e la pietà (oltre alle discussioni religiose, linguistiche e politiche), come si può desumere dal folto carteggio epistolare fra i due uomini. Questi anni, dal punto di vista strettamente letterario, videro Manzoni rigettare quell’equilibrio tra vero storico e vero poetico impostato nel suo romanzo. Attratto in maniera crescente dagli studi linguistici, storici e filosofici, Manzoni sentì sempre più necessaria e urgente la ricerca della "verità oggettiva" condannando, nel saggio Del romanzo storico e, in genere, de’ componimenti misti di storia e di invenzione e nel dialogo Dell’Invenzione (pubblicati entrambi del 1850), la commistione tra inventio e historia. Gli anni del Risorgimento: lutti privati e simbolo della Patria Gli anni seguenti furono assai penosi: nel 1853 morì Tommaso Grossi, nel 1855 l’amico Rosmini e l’anno successivo la figlia Matilde, da tempo ammalata di tisi; nel 1858 lo zio Giulio Beccaria e nel 1861 la moglie Teresa, la cui salute era stata irrimediabilmente compromessa dopo una difficoltosa gravidanza anni addietro. Questa serie di lutti fu alternata dal conferimento di onorificenze da parte del neonato Regno d’Italia, e dalle visite di illustri ospiti. Il 29 febbraio 1860, ancor prima della proclamazione ufficiale del nuovo Stato unitario, fu nominato senatore del Regno di Sardegna per meriti verso la patria. Con questo incarico votò nel 1864 a favore dello spostamento della capitale da Torino a Firenze fintanto che Roma non fosse stata liberata. Dal punto di vista intellettuale, gli ultimi anni videro Manzoni, oltre che conversare col Rosmini, scrivere saggi storici (La Rivoluzione francese del 1789 e la Rivoluzione italiana del 1859: saggio comparativo) e linguistici intorno alla lingua italiana. Come presidente della commissione parlamentare sulla lingua, infatti, Manzoni scrisse, nel 1868, una breve relazione sulla lingua italiana (Dell’unità della lingua e dei mezzi di diffonderla) indirizzata al ministro Broglio, in cui si cerca di trovare una soluzione pratica alla diffusione del fiorentino in tutta Italia. Il 28 giugno 1872 fu nominato cittadino onorario di Roma. La morte e il funerale Manzoni, a parte i disturbi nervosi da cui era affetto e una malattia che lo colpì nel 1858, godette sempre di ottima salute. L’anno 1873 fu però l’ultimo della sua vita: il 6 gennaio cadde battendo la testa su uno scalino all’uscita dalla chiesa di San Fedele di Milano, procurandosi un trauma cranico. Manzoni si accorse, già dopo qualche giorno, che le sue facoltà intellettive cominciavano lentamente a scemare, fino a cadere in uno stato catatonico negli ultimi mesi di vita. Le sofferenze furono acuite dalla morte del figlio maggiore Pier Luigi, avvenuta il 28 aprile, e quasi un mese dopo, il 22 maggio alle ore sei e quindici del pomeriggio, spirò per una meningite contratta a seguito del trauma. Il corpo fu poi imbalsamato da sette medici incaricati del processo da parte del Comune di Milano tra il giorno 24 e il 27 maggio. Ai solenni funerali del Senatore, celebrati in Duomo il 29, parteciparono le massime autorità dello Stato, tra cui il futuro re Umberto I, il ministro degli esteri Emilio Visconti Venosta e le rappresentanze della Camera, del Senato, delle Province e delle Città del Regno . Felice Venosta ne narra i particolari descrivendo, non senza note di patetismo, lo stato d’animo in cui versava la città al momento della sua scomparsa: Dopo la morte Elogi e critiche L’attacco dei cattolici reazionari La scomparsa di Alessandro Manzoni non suscitò unanime cordoglio: il mondo cattolico più reazionario e clericale, per esempio, non ne compianse la morte. Anzi, i gesuiti de La Civiltà Cattolica la passarono sotto silenzio, per poi scagliarsi contro il Manzoni scrittore e cristiano nell’articolo del 26 giugno 1873, Alessandro Manzoni e Giuseppe Puccianti. Nel grave dissidio tra le due anime del cattolicesimo italiano dell’epoca, Manzoni veniva ritenuto, anche da altri sostenitori dell’ala reazionaria, il vessillo tramite cui i liberali poterono attuare la loro politica laicista e l’abbattimento del potere temporale dei papi. A tal proposito don Davide Albertario, uno dei più accesi critici della religiosità manzoniana e “paradigma” delle accuse mosse dagli zelanti al liberale Manzoni, non risparmiò dure critiche sull’ambiguità del comportamento di Alessandro: Benedetto Croce, nel 1941, riportò come ancora a distanza di anni dopo la morte di Manzoni i cattolici “intransigenti” facessero sentire la loro voce tramite quella di Giovanni Papini: Onoranze postume Nel 1874, nel primo anniversario della morte, Giuseppe Verdi diresse personalmente nella chiesa di San Marco di Milano la Messa di requiem, composta per onorarne la memoria. La mattina del 22 maggio 1883, a dieci anni esatti dalla morte, in presenza del duca di Genova e di una rappresentanza parlamentare, con una cerimonia pubblica la salma fu tolta dal Colombario e posta nel famedio del Cimitero Monumentale di Milano in una tomba di granito rosso con inciso solo il suo nome; nel pomeriggio fu inaugurato il monumento in piazza San Fedele, opera di Francesco Barzaghi. Il 29 dicembre 1923, in occasione del cinquantesimo anno dalla morte, il Regno d’Italia emise una serie commemorativa di sei francobolli ceduta in parte al comitato promotore della celebrazione. La critica letteraria su Manzoni Il mito manzoniano: tra luci e ombre Le prime biografie di Manzoni furono scritte da Cesare Cantù (1885), Stefano Stampa (edita anch’essa nel 1885, in risposta a delle inesattezze del Cantù), Cristoforo Fabris, Angelo De Gubernatis (1879), mentre una parte delle lettere di Manzoni fu pubblicata da Giovanni Sforza nel 1882. La figura enigmatica dello scrittore, costantemente afflitto da sintomi depressivi e relegato ad una vita appartata e isolata dagli eventi mondani, spinsero Paolo Bellezza a comporre il saggio Genio e follia in Alessandro Manzoni (1898), in cui si analizzano paure bizzarre dello scrittore, quali l’agorafobia, gli svenimenti continui e la paura delle pozzanghere. Manzoni non fu però solo oggetto di indagini psicoanalitiche, ma anche di vere e proprie critiche nel campo strettamente letterario: in primo luogo dagli Scapigliati, che videro in Manzoni l’espressione del perbenismo borghese da loro tanto detestato; da Giosuè Carducci, estimatore dell’Adelchi ma implacabile verso il romanzo; da Luigi Settembrini, autore del Dialogo tra Manzoni e Leopardi in cui l’anticlericale napoletano si burla della sua fede cattolica. Ammirazione incondizionata, invece, venne da Francesco De Sanctis, Giovanni Verga, Luigi Capuana e da Giovanni Pascoli, che gli dedicò il saggio critico Eco di una notte mitica (1896). Nel Novecento, a causa dei movimenti anticlassicisti delle avanguardie, dell’evoluzione della lingua e all’edulcoramento della figura del romanziere che veniva insegnata nelle scuole, Manzoni subì varie critiche da parte di letterati e intellettuali: tra questi, D’Annunzio, avverso alla teoria linguistica manzoniana, il “primo” Croce e il marxista Gramsci, che accusò Manzoni di paternalismo. La più importante apologia del Manzoni fu operata dal filosofo Giovanni Gentile, che nel 1923 lo definì, in una conferenza alla Scala, un «grande maestro nazionale» come già avevano fatto Mazzini e Gioberti, ravvisando in lui il promotore di quell’idealismo religioso, in cui Gentile si riconosceva, che costituiva ai suoi occhi le fondamenta del Risorgimento italiano. In difesa di Manzoni si schiererà anche Carlo Emilio Gadda, che al suo esordio pubblicò nel 1927 l’Apologia manzoniana, e nel 1960 attaccò il piano di Alberto Moravia di affossarne la proposta linguistica. Soltanto nel Secondo Novecento, grazie agli studi di Luigi Russo, Giovanni Getto, Lanfranco Caretti, Ezio Raimondi e Salvatore Silvano Nigro si è riusciti a “liberare” Manzoni dalla patina ideologica di cui era stato rivestito già all’indomani della sua morte, indagandone con occhio più libero di pregiudizi la poetica e, anche, la modernità dell’opera. Pensiero e poetica Tra illuminismo e romanticismo Gli esordi neoclassici e illuministi Dopo il periodo della prima giovinezza, caratterizzato da una formazione basata sullo studio dei grandi classici antichi e italiani, il giovane Alessandro entrò in contatto prima col giacobinismo italiano (Lomonaco e Cuoco) poi, dal 1805 in avanti, con il gruppo degli Idéologues francesi (Fauriel, Cabanis). Il risultato fu che il giovane Manzoni aderì fino agli ultimi anni del primo decennio dell’Ottocento a un illuminismo scettico nel campo della religione, in cui predominava il valore per la libertà propugnata dagli ideali rivoluzionari, filtrandoli con gli apporti paideutico-educativi propri della lezione di Giuseppe Parini, del nonno Cesare Beccaria e di Pietro Verri. Dopo la conversione: il Manzoni illuminista Neanche dopo la conversione al Cattolicesimo nel 1810 e il rifiuto dei versi dell’Urania (1809), Manzoni abbandonò totalmente l’apporto illuminista della ragione, della coscienza individuale, e i valori della sua prima educazione. Riconoscendo il ruolo civile del letterato (apporto proprio dell’illuminismo milanese e dell’Alfieri), Manzoni intervenne più volte, sia in privato che nel circolo dell’azione letteraria, nelle vicende della storia, come attestano le Odi civili del 1814 e del 1821. Comunque, il manifesto di questa vocazione “civile” è pienamente espresso a più riprese nella Lettera sul Romanticismo inviata al marchese Cesare d’Azeglio (1823), in cui Manzoni ribadisce il valore sociale che un’opera d’arte letteraria deve avere come principale finalità: L’affinità col romanticismo L’elemento romantico nella produzione poetica manzoniana emerge negli Inni Sacri, dove per la prima volta l’io del poeta si eclissa a favore di un’universalità corale che eleva il suo grido di speranza e la sua fiducia in Dio. La moltitudine degli uomini, il sentimento religioso e l’attenzione ai moti dell’anima nel cuore dei fedeli sono tutti elementi che avvicinano Manzoni al nascente movimento romantico, rendendo il giovane poeta meneghino e la cultura d’oltralpe legati da vincoli estetici e poetici affini. Oltre alla dimensione “ecclesiale” della religiosità manzoniana, non si può dimenticare, per quanto riguarda l’attenzione al popolo, l’apporto fondamentale della storiografia francese di Augustin Thierry e degli idéologues in generale, che propugnavano di incentrare la storia sugli umili, piccoli personaggi che non scemano nell’oblio del tempo perché non sono oggetto d’interesse da parte dei cronisti loro coevi e che subiscono violenza per le decisioni dei potenti. Il cattolicesimo manzoniano Il ruolo della Provvidenza e il giansenismo Persa, alla fine dei primi anni dell’Ottocento, la speranza di raggiungere la serenità per mezzo della ragione, la vita e la storia gli parvero romanticamente immerse in un vano, doloroso, inspiegabile disordine: bisognava trovare un fine salvifico che potesse aiutare l’uomo sia a costituire un codice etico da praticare nella vita terrena, sia a sopportare i mali del mondo in previsione della pace celeste. Il critico Alessandro Passerin d’Entrèves sottolinea l’importanza che ebbero Blaise Pascal e i grandi moralisti francesi del Seicento (Bossuet) nella formazione religiosa del Manzoni: da essi l’autore aveva attinto l’ambizione a conoscere l’animo umano e «la convinzione che il cristianesimo è l’unica spiegazione possibile della natura umana, che è stata la religione cristiana che ha rivelato l’uomo all’uomo», trovando nei loro insegnamenti quella fiducia nella religione come strumento di sopportazione dell’infelicità umana. La fiducia in Dio è il punto di distacco dal pessimismo propugnato da Giacomo Leopardi. Su un terreno così impregnato di pessimismo esistenziale, gioca un ruolo fondamentale la Provvidenza, cioè il modo misterioso con cui Dio agisce nella vita umana elargendo la Salvezza ai suoi figli. Appresa alla scuola del moralista seicentesco Bossuet, la Provvidenza giocherà un ruolo fondamentale non soltanto all’interno de I promessi sposi, ma anche delle altre opere “minori”: i vari personaggi manzoniani dovranno subire patimenti e ingiustizie all’interno del mondo, e soltanto l’agire della Provvidenza (chiamata, in questo contesto doloroso, anche con il nome di provvida sventura) permetterà loro di divenire vittime e di ottenere quella giustizia attesa vanamente sulla terra e che sarà invece elargita in Cielo. Questa visione così pessimista del mondo è dovuta, anche, alle venature profondamente gianseniste che i direttori spirituali di Manzoni, Degola prima e Tosi poi, gli hanno impartito nell’affrontare le vicende umane. In realtà, però, Manzoni rimase sempre, dal punto di vista dogmatico, un cattolico, mantenendo soltanto una severa morale di vita vicina agli ambienti giansenisti. Come sottolinea Giuseppe Langella, sulla questione fondamentale della Grazia «Manzoni si attiene senza riserve all’insegnamento ufficiale della Chiesa, confida nell’esortazione apostolica del vangelo secondo Matteo: “petite, et dabitur vobis”… Nessuna discriminazione, dunque, nell’offerta misericordiosa della grazia. Manzoni è perentorio: l’aiuto divino non è negato a nessuno che lo chieda…». Manzoni drammaturgo e romanziere Tra morale e realismo Il palcoscenico, secondo Manzoni, non deve veicolare passioni e forti emozioni, nell’esasperazione dell’io del protagonista, ma indurre lo spettatore a meditare sulle scene cui assiste: all’«identificazione emozionale» di Racine e del teatro francese bisogna sostituire la «commozione meditata», per dirla con Gino Tellini. La vicenda e la rappresentazione devono trasmettere un messaggio cristiano, senza per questo presentare una realtà idilliaca: al contrario, Manzoni va in cerca di personaggi, che, come Francesco Bussone (il conte di Carmagnola), si oppongano al male che domina la società umana, anche a prezzo della loro vita. L’importante è che il drammaturgo cerchi la verità e si mantenga fedele alla realtà storica (il vero storico), lasciando al poeta il compito di indagare ciò che il cuore umano del protagonista può aver provato in un determinato contingente. Si profila, pertanto, quella forte vena realistica che dominerà anche l’economia del romanzo, dal Fermo e Lucia fino alla Quarantana de I promessi sposi, dove il realismo emerge proprio dall’ultimo capitolo: non c’è un lieto fine, ma una ripresa della vita quotidiana spezzata però dalle disavventure dei protagonisti. L’allontanamento da Lecco di Renzo e Lucia e la ripresa delle attività giornaliere sono il frutto della scelta, da parte dell’autore, di far continuare, nelle situazioni della vita quotidiana, le vite dei due protagonisti all’interno della quotidianità storica. La Questione della lingua in Manzoni Manzoni, sulla spinta del romanticismo e della sua necessità di instaurare un dialogo con un vasto pubblico eterogeneo, si prefisse lo scopo di trovare una lingua in cui ci fosse un lessico pregno di termini legati all’uso quotidiano e agli ambiti specifici del sapere, e priva di una grande disparità tra la lingua parlata e quella scritta. Questo percorso, iniziato già all’indomani della pubblicazione del Fermo e Lucia, vide Manzoni passare, tra il 1822 e il 1827, dal “compromesso” della buona lingua letteraria all’avvicinamento col toscano, e si concluse dopo anni di studi linguistici (facilitati anche dalla presenza della governante fiorentina Emilia Luti) nel 1840 con la revisione linguistica de I promessi sposi sul modello del fiorentino colto, che presentava ancor più del toscano questa dimensione unitaria tra la dimensione orale e quella letteraria. Infatti, tra l’edizione del 1827 e quella del 1840 vengono eliminati tutti quei lemmi toscani municipali e distanti dall’uso del fiorentino corrente. Tale scelta linguistica, benché approvata dal ministro Emilio Broglio nella relazione del 1868, non fu accettata da tutti i contemporanei del Manzoni: Carlo Tenca, in un articolo datato 11 gennaio 1851 della rivista «Crepuscolo», si oppose alla soluzione manzoniana. L’uomo Manzoni Una vita a prima vista tranquilla Come conseguenza del suo stile di vita estremamente riservato, non è facile inquadrare Manzoni come uomo. Egli visse perlopiù appartato dalla vita pubblica, mantenendosi estraneo dai principali eventi mondani della città (se si eccettua la frequentazione del salotto intellettuale tenuto da Clara Maffei) e distante dall’impegno politico attivo dei grandi moti nazionalistici che stavano sconquassando l’Italia nel pieno del fervore risorgimentale, mantenendo però una posizione culturalmente e moralmente favorevole alla causa dell’Unità (si vedano l’Adelchi e Marzo 1821), che lo spingerà ad accettare la nomina a senatore a vita durante la vecchiaia. La ragione di questo atteggiamento, oltre che al carattere del Manzoni, è forse da ricercare nei suoi continui disturbi nevrotici (che curava con lunghissime passeggiate e uno stile di vita estremamente regolare) come agorafobia, attacchi di panico, ipocondria, svenimenti, fobie varie (timore della folla, dei tuoni e delle pozzanghere). Amante del quieto vivere, condusse apparentemente una vita silenziosa tra Brusuglio (ove lo scrittore si dilettava di botanica e giardinaggio, intessendo con Fauriel un ricco epistolario al riguardo) e via del Morone, dedito ai suoi studi, alla cura della famiglia (anche se, per i complessi di cui era afflitto, era sempre oggetto di cure da parte dei suoi cari) e alla coltivazione delle amicizie più strette. Nella conversazione usava l’italiano con i visitatori provenienti da altre regioni italiane, ma soprattutto adoperava il dialetto milanese nella vita quotidiana. Inetto nell’amministrazione dei suoi beni, dimostrava al contrario una grande attenzione nei confronti del mondo che lo circondava, non mancando di giudicare, placidamente e con ironia, gli eventi politici e sociali di cui veniva a conoscenza, o di adottare autoironia verso i suoi mali. Le persone a lui più vicine ne sottolineavano la cortesia, la memoria vivacissima, l’ingegno e una capacità discorsiva elegante, benché minato dalla balbuzie di cui lo scrittore era afflitto. La descrizione fisica Il figliastro Stefano Stampa, infine, offre un ritratto fisiognomico assai dettagliato del patrigno, delineandone anche i movimenti e quel sorriso indice del suo carattere ironico: Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Alessandro_Manzoni

Elio Pagliarani

Elio Pagliarani (Viserba, 25 maggio 1927 – Roma, 8 marzo 2012) è stato un poeta e critico teatrale italiano. Ha lavorato nel mondo editoriale ed è stato critico teatrale del quotidiano Paese sera dal 1968 al 1987. È stato tra i principali esponenti della neoavanguardia (comparendo tra l’altro nell’antologia I novissimi del 1961), uno dei protagonisti del Gruppo '63, all’interno della quale ha occupato tuttavia una posizione autonoma e personale. La sua poesia, non priva di toni populistici e crepuscolari, nasce dalla cronaca e dalla vita quotidiana; prosa, inserzioni dialettali, collage di vario tenore sono gli ingredienti del suo stile. Ha anche pubblicato testi teatrali. Pagliarani è stato uno scrittore che ha saputo costantemente reinventarsi nel corso degli anni. Da un lato una fedeltà quasi fotografica al reale, e al mondo della piccola gente, dal sottoproletariato a impiegati come La ragazza Carla, la sua opera più significativa e riconosciuta; dall’altro l’uso di una serie di procedimenti tecnico-formali tipici delle avanguardie, una capacità inusuale di giocare con la lingua e i suoi ritmi. Biografia e opere Nasce il 25 maggio 1927 a Viserba, in Romagna, da Giovanni e da Pasquina Pompili. Il nome di famiglia ha sempre oscillato, anche negli atti anagrafici, tra Pagliarani e Paglierani. Viserba, oggi frazione di Rimini, allora un borgo di piccola industria (sede di una corderia ove si lavorava soprattutto il lino) e turismo (l’attività balneare aveva appena preso le mosse) attirava una popolazione di estrazione contadina, per lo più originaria della non distante Santarcangelo. Il padre proveniva da una famiglia di allevatori di cavalli ed esercitava la professione di vetturale: imparentato alla lontana con quel Luigi Pagliarani investito e poi prosciolto (ma nel 2001 il “caso” è stato riaperto) dall’accusa di essere stato esecutore materiale, nel 1867, dell’assassinio di Ruggero Pascoli, padre di Giovanni e amministratore della tenuta dei Torlonia nella vicina San Mauro. Laureatosi in Scienze politiche a Padova, si trasferisce negli anni quaranta a Milano, dove lavora nella scuola e collabora a giornali e riviste. Negli anni sessanta il poeta si trasferisce a Roma, abitando, fra l’altro, dalla fine degli anni '60 al 1991, nello storico indirizzo di Via Margutta 51 A, interno 29, quello la cui terrazza, un tempo fiorita di gelsomini, rose e viole, troneggia sull’ampio giardino a ghiaietta dello stabile. Collaboratore attivo e presente sulla scena della nuova cultura, Pagliarani, collabora alle più importanti riviste del secondo Novecento, tra le quali Officina, Quindici, Il Verri, Nuovi argomenti, Il Menabò. Nel 1971 fonda la rivista Periodo Ipotetico diventandone il direttore; fa pure parte della redazione di Nuova Corrente. Negli anni Ottanta fonda e dirige con Alessandra Briganti la rivista di Letterature Ritmica. Negli anni cinquanta svolge la sua attività come redattore dell’Avanti e a partire dal 1968, diventa critico teatrale per Paese Sera. Oltre a far parte del Gruppo 63 e ad essere presente nell’antologia dei Novissimi, fu tra i fondatori della Cooperativa di scrittori. Risale al 1954 la sua prima raccolta di poesie, Cronache e altre poesie a cui seguiranno Inventario privato nel 1959 e, nello stesso anno, nel n.14 di Nuova Corrente “Progetti per la ragazza Carla”. Il poemetto sarà poi interamente pubblicato nel 1960 nel n.2 de Il Menabò e ripubblicato nel 1962, insieme alla precedente produzione con il titolo La ragazza Carla e altre poesie. Nel 1964 l’autore pubblica Lezione di fisica che nel 1968 farà parte di Lezioni di fisica e Fecaloro. La ballata di Rudi Inizia in questo periodo la stesura de La ballata di Rudi, il suo secondo romanzo in versi, di cui una parte verrà pubblicata nel 1977 con il titolo Rosso corpo lingua oro pope-papa scienza. Doppio trittico di Nandi mentre l’edizione definitiva e completa si avrà solamente nel 1995. La ballata di Rudi narra le vicende del protagonista eponimo e di una serie di personaggi di contorno, nell’arco di trent’anni. Rudi è un animatore / di balli sull’Adriatico che nel secondo dopoguerra si trasferisce a Milano. Qui prosegue l’attività di intrattenitore in un night club, incoraggiando la prostituzione delle ragazze che lavorano nel locale.La voce narrante del poemetto è a sua volta un protagonista (si tratterebbe, utilizzando un termine coniato da Gérard Genette per i testi narrativi, di un narratore intradiegetico). Nel corso della narrazione affiorano i suoi ricordi d’infanzia: In un’intervista, Pagliarani dichiarò che il personaggio di Rudi era ispirato a una figura da lui realmente conosciuta negli anni '40. Tra gli altri personaggi possiamo ricordare Armando, un tassista abusivo a cui sono dedicati i componimenti XI– XVII del poemetto. Un suo cliente abituale gli propone di collaborare a un contrabbando di denaro in Venezuela. Armando accetta sperando di poter comprare la licenza da tassista con il compenso promesso, ma viene bidonato dal faccendiere.La storia di Armando è narrata dal tassista stesso, e il narratore scompare in questo micro-racconto interno. In quasi tutti i componimenti ci sono però più voci che si alternano, in un flusso privo di segni di interpunzione, dove il passaggio dal monologo interiore a vivaci battibecchi con gli altri interlocutori è scandito tipograficamente (ma non sempre) dalla disposizione dei versi “a gradini”. Ai componimenti che raccontano le gesta di Rudi, Armando e altri personaggi sordidi, si alternano riflessioni di poetica (A spiaggia non ci sono colori) e memorie della vita dei braccianti del mare, in contrapposizione violenta con lo sfacelo morale dell’Italia degli anni Cinquanta. Dopo la morte di Rudi nei primi anni sessanta le cose non migliorano, come suggerisce la poesia Contatta Sagredo, dove personaggi ancora più amorali entrano in scena.Sagredo (alla pari di Rudi) è uno sfruttatore di prostitute, che si nasconde dietro un’immagine di raffinatezza e perbenismo. Il poemetto si chiude con un’epigrafe che è una proposta di resistenza e riapre uno spiraglio di ottimismo: La ballata di Rudi ha vinto il Premio Viareggio per la poesia nel 1995. Gli ultimi anni Tra l’ultima produzione si segnala La bella addormentata. Dal 1988 è stato direttore della videorivista internazionale di poesia VIDEOR. Nel 1998 riceve il Premio Speciale della Giuria del Campiello alla carriera letteraria.Muore a Roma l’8 marzo 2012, all’età di 84 anni. Nel 2015 nasce il Premio Nazionale Elio Pagliarani, dedicato alla poesia italiana contemporanea edita e inedita. Poetica La poesia di Pagliarani affronta temi realistici, come quello del lavoro, dell’economia e della vita delle classi subalterne, trasfigurando il testo poetico fino a trasformarlo in un racconto con andamento polifonico e “corale” che diventa, con il trascorrere del tempo, sempre più frammentario e discontinuo.Pagliarani ricerca la ritmicità poetica nel discorso quotidiano, anche se a un’attenta analisi metrica, molti componimenti sono riconducibili a misure tradizionali (come l’endecasillabo), che emergono a tratti, dissimulati nel verso lungo. Pagliarani sperimenta il verso lungo attraverso il verso “a scaletta” ripreso dalla poesia di Majakovskij rendendo così la poesia tipico mezzo di analisi del vissuto. Un’altra sua tecnica, ripresa dalla poesia di Ezra Pound, è quella dell’inserimento nel discorso poetico di frammenti di testi tecnici o cronachistici (come il manuale di dattilografia nella Ragazza Carla, o brani di articoli di giornale nella Ballata di Rudi). Opere Poesia * Cronache ed altre poesie, Schwarz, Milano, 1954 * Inventario privato, Veronelli, Milano, 1959 * La ragazza Carla in "menabò 2", 1960 * La ragazza Carla e altre poesie, Mondadori, Milano, 1964 * Lezione di fisica, Scheiwiller, Milano, 1964 * Lezione di fisica e Fecaloro, Feltrinelli, Milano, 1968 * Rosso Corpo Lingua oro pope-papa scienza– Doppio trittico di Nandi con un saggio di Gabriella Sica, Cooperativa Scrittori, Roma, 1977 * Poesie da recita (La ragazza Carla – Lezioni di fisica e Fecaloro – Dalla ballata di Rudi) a cura di Alessandra Briganti, Roma, 1985; brani tradotti in francese da J.-Ch. Vegliante (v. pure: Epigrammi) * Esercizi platonici, Palermo, Acquario, 1985 * Epigrammi ferraresi, introduzione di Romano Luperini, Manni Editori, Lecce, 1987 * La bella addormentata nel bosco, Corpo 10, Milano, 1988. * La ballata di Rudi, Marsilio, Milano, 1995. * Per il duemila immediato futuro, disegni a mano di Cosimo Budetta, Intervento di Francesca Bernardini Napoletano, Ogopogo, Agromonte, 1998. * Quattro epigrammi da Savonarola, disegni a mano di Cosimo Budetta, Nota introduttiva di Francesca Bernardini Napoletano, Ogopogo, Agromonte, 1998. * A Liarosa vent’anni dopo, acquerello di Eugenia Serafini, Osnago, edizioni Pulcinoelefante, 2001. * La Ragazza Carla A Girl named Carla, translated into English by Luca Paci with Huw Thomas, Troubador, Uk,2006 Antologie * I maestri del racconto italiano (in collaborazione con Walter Pedullà), Rizzoli, Milano, 1964 * Manuale della poesia sperimentale (in collaborazione con Guido Guglielmi), Mondadori, Milano, 1966 * Tutte le poesie (1946-2005), Garzanti, Milano, 2006 Teatro * Le sue ragioni (musica di Angelo Paccagnini), Milano, 1960 * Pelle d’asino (in collaborazione con Alfredo Giuliani), Scheiwiller, Milano, 1964 * Rosso Corpo Lingua (musica di Andrea Ciullo), Galleria Arti Visive di Sylvia Franchi, Roma, 1979 * A tratta si tirano da “La ballata di Rudi” (musica di Andrea Ciullo), Galleria Nazionale d’Arte Moderna, Roma, 1983 * La bella addormentata nel bosco, Corpo 10, Milano, 1987 * La bestia di porpora o Poema di Alessandro ne L’Illuminista, rivista di cultura contemporanea diretta da Walter Pedullà,n.2-3, autunno inverno 2000, pp. 41–87 * IV Epigramma dagli “Eccetera di un contemporaneo” (musica di Andrea Ciullo), E-theatre, Roma, 2007 * Tutto il teatro, a cura di Gianluca Rizzo, Venezia, 2013 Saggistica * Il fiato dello spettatore, Marsilio, Padova, 1972; nuova edizione Il fiato dello spettatore e altri scritti sul teatro, a cura di Marianna Marrucci, L’orma editore, Roma, 2017, ISBN 978-88-997-9322-7 * Giovanni Pascoli, Ist. Poligrafico dello Stato, Roma, 1998 * Epigrammi. Da Savonarola, Martin Lutero..., Manni Editori, Lecce, 2001 Opere complessive * La ragazza Carla e nuove poesie, a cura di Alberto Asor Rosa, Mondadori, Milano, 1978 * Poesie da recita. La ragazza Carla, Lezione di fisica e Fecaloro, dalla Ballata di Rudi, a cura di Alessandra Briganti, Bulzoni, Roma, 1985 * Poesie d’amore e disamore, a cura di Plinio Perilli, Mancosu, Roma, 1994 (contiene le prime due raccolte) * La pietà oggettiva. (Poesie 1947-1997), a cura di Plinio Perilli, Fondazione Piazzolla, Roma, 1997 * Romanzi in versi (La ragazza Carla, La ballata di Rudi), Mondadori, Milano, 1997 * Tutte le poesie(1946-2005), a cura di Andrea Cortellessa, Garzanti, Milano, 2006 Bibliografia della critica * Franco Fortini, Pagliarani, 1959, in Id. Saggi italiani, Milano, 1987 * Giovanni Raboni, Tre libri di poesia, in “aut aut” 1963, ora in Id., La poesia che si fa, Milano, 2005 * Guido Guglielmi, Recupero della dimensione epica, in “Paragone”, XIV, 1963 * Enzo Siciliano, in Prima della poesia, Firenze, 1965 * Costanzo Di Girolamo, Elio Pagliarani, in “Belfagor”, XXIX, 1974 * Walter Pedullà, Elio Pagliarani, in AA.VV., Letteratura italiana. I contemporanei, vol. VI, Milano, 1974 * Walter Siti, Lezioni di fisica e Fecaloro, in Id., Il realismo dell’avanguardia, Torino, 1975 * Romano Luperini, Elio Pagliarani, in Il Novecento, Torino, 1981 * Gabriella Di Paola, La ragazza Carla:linguaggio e figure, con una premessa di Ignazio Baldelli, Roma, 1985 * Jean-Charles Vegliante, Pagliarani, la poesia “quando ristagna il ritmo...”, in “Les Langues Néo-Latines” 266, 1988 (p. 63-70) * G. Pianigiani, La Ballata di Rudi di Elio Pagliarani: romanzo-partitura e drammaturgia antilirica, in “Allegoria”, n. 23, a. VIII, 1996 * Fausto Curi, Pagliarani, in Id. La poesia italiana del Novecento, Bari Roma, 1999 * M. Marrucci, Effetti di romanzizzazione in Elio Pagliarani, in “Moderna”, n.2, a. II, 2000 * C. Eccher, Sulla Ballata di Rudi di Elio Pagliarani, in “Avanguardia”, n. 20, a. VII, 2002 Luigi Ballerini, Della violenta fiducia ovvero di Elio Pagliarani in prospettiva, in Elio Pagliarani, Atti della giornata di studi di Los Angeles del 7 ottobre 2003, “Carte italiane.A Journal of Italian Studies edited by the Graduate Students at UCLA”,1,2004, pp. 21–23 * Fausto Curi, Mescidazione e polifonia in Elio Pagliarani, in Id. Gli stati d’animo del corpo. Studi sulla letteratura dell’Ottocento e del Novecento, Pedragon, Bologna, 2005 * Enrico Testa, Elio Pagliarani, in Dopo la lirica, Torino, 2005 * Marco Ricciardi, La feci trasformate in oro dal poeta-alchimista, ne “L’Immaginazione”, N° 245, marzo 2009 Luigi Weber, “Pensare che s’appassisca il mare”: economia del paesaggio ne La ballata di Rudi di Elio Pagliarani, in Atlante dei movimenti culturali in Emilia-Romagna dall’Ottocento al contemporaneo, a cura di P. Pieri e L. Weber, Bologna, CLUEB, 2010, vol. III, pp. 271–288 * Federico Fastelli, “Dall’avanguardia all’eresia”. L’opera poetica di Elio Pagliarani, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2011. Mario Buonofiglio, Il suono di sottofondo della città e i turbamenti ritmici della “Carla” del Pagliarani, in Il Segnale, anno XXXI, nr. 93, ottobre 2011; ora disponibile in AcademiaIl numero 20/21 (settembre/dicembre 2007) de L’Illuminista (direttore Walter Pedullà, edizioni Ponte Sisto, Roma) è interamente dedicato all’opera di Elio Pagliarani e contiene –oltre ad un’ampia selezione di saggi e interventi critici editi– i seguenti saggi inediti: * Luigi Ballerini, Documenti per una preistoria della “Ragazza Carla” * Grazia Menechella, Le domeniche di Carla * Tommaso Ottonieri, Il romanzo del Focus * Walter Pedullà, Le sentenze finali di Elio Pagliarani * Marco Ricciardi, Un cactus chiamato poesia nel deserto della Pedagogia urbana * Caterina Selvaggi, La resistenza delle/alle cose in “Fecaloro” * Carlo Serafini, La parola torna ai poeti... * Siriana Sgavicchia, Kipling, Brecht, Eliot, nella “Ballata di Rudi” Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Elio_Pagliarani

Andrea Zanzotto

Andrea Zanzotto (Pieve di Soligo, 10 ottobre 1921 – Conegliano, 18 ottobre 2011) è stato un poeta italiano tra i più significativi della seconda metà del Novecento. Biografia Andrea Zanzotto nacque nel 1921 a Pieve di Soligo da Giovanni e Carmela Bernardi. Durante i primi due anni di vita, visse in un vicolo vicino a via Sartori, ma due anni dopo, nel 1922, la famiglia si trasferì nella contrada di Cal Santa, dove il padre, che lavorava come miniatore, decoratore e ritrattista, aveva acquistato casa: saranno questi i luoghi più volte descritti dal poeta e la casa, come egli stesso scrive nell’Autoritratto del 1977, sarà, fin dall’inizio, il centro del suo mondo. La formazione scolastica Nel 1923 nacquero le due sorelle gemelle Angela e Marina e, nel 1924, Zanzotto iniziò a frequentare la scuola materna, gestita da suore che seguivano il metodo Montessori. Nel 1925 nacque la sorella Maria. Nel frattempo il padre, che aveva espresso apertamente le lodi di Giacomo Matteotti, venne accusato di antifascismo e, con l’andare del tempo, la sua opposizione al regime gli rese difficile ogni tipo di lavoro, tanto da decidere nel 1925 di rifugiarsi a Parigi e poi a Annœullin, nei pressi di Lilla, dove lavorò presso degli amici. Ritornò poi per un breve periodo in patria, ma nel 1926 fu costretto a ritornare in Francia, a Royan, dove rimase fino al dicembre dello stesso anno. La scuola elementare Quando nel 1927 iniziò la scuola elementare, grazie alla maestra Marcellina Dalto, Zanzotto aveva già imparato a scrivere: fu così inserito nella seconda classe. Come racconta il poeta stesso nel suo Autoritratto, egli già sentiva il piacere della musicalità delle parole: “provavo qualcosa di infinitamente dolce ascoltando cantilene, filastrocche, strofette (anche quelle del ”Corriere dei Piccoli") non in quanto cantate, ma in quanto pronunciate o anche semplicemente dette, in relazione a un’armonia legata proprio al funzionamento stesso del linguaggio, al suo canto interno".Nel 1928 il padre ottenne un impiego come insegnante presso una scuola in Cadore e decise di trasferirsi con la famiglia a Santo Stefano, dove Zanzotto avrebbe terminato la seconda classe. Alla fine dell’estate però Giovanni, resosi conto della sofferenza che il distacco dalla madre causava alla moglie, decise di far rientrare la famiglia a Pieve. Nel 1929 morì una delle sue sorelle, Marina, evento che rimase impresso, insieme ad altri episodi dolorosi, nella sua giovane mente. In quello stesso anno, infatti, il padre Giovanni si mise in luce con una chiara e decisa propaganda per il “No” al plebiscito fascista: fu così costretto a prolungare il suo esilio, riuscendo comunque a lavorare alla decorazione della chiesa di Costalissoio. Zanzotto, che frequentava ormai la terza elementare, lo raggiunse durante il periodo delle vacanze estive, pur soffrendo per la nostalgia di casa. Nel 1930 nacque un altro fratello, Ettore. Intanto, la fuga di un cassiere con i fondi della società che garantiva il sostegno familiare a Giovanni, obbligò lo stesso, insieme ad altri garanti (si trattava di un’associazione tra mutilati di guerra che aveva preso la forma di una cooperativa di lavoro), a contrarre debiti imponendo all’intera famiglia notevoli ristrettezze economiche. In questo periodo Zanzotto si affezionò ancor più alla nonna paterna e alla zia Maria, la quale, come scriverà in “Uno sguardo dalla periferia”, gli faceva ascoltare “frammenti di latino maccheronico” e lo coinvolse nell’attività del teatrino delle suore, presso cui lei aveva funzione di drammaturgo, capocomico, regista e attrice. A scuola si dimostrava un alunno vivace e non sempre disciplinato, ricevendo spesso i rimproveri del padre. Un punto debole in cui il giovinetto risultava piuttosto impacciato era il disegno, arte perfezionata invece magistralmente dal padre, il quale insisté allora perché prendesse lezioni di musica, arte molto amata dagli abitanti di Pieve per la fama del famoso soprano conterraneo Toti Dal Monte, che verrà ricordato da Zanzotto all’inizio della sua opera Idioma. La scuola media Terminata la scuola elementare nel 1931 come allievo esterno al Collegio Balbi-Valier, dopo l’esame pubblico a Vittorio Veneto, Zanzotto iniziò la scuola media, maturando intanto la decisione di studiare per l’istituto magistrale, spinto soprattutto dalle precarie condizioni economiche familiari. Il padre Giovanni lavorava nel frattempo a Santo Stefano, ma nel 1932 fu costretto, causa la riduzione degli stipendi, a ritornare ad Annœullin dove rimase fino al novembre. Rientrò a Pieve nel 1933 e, anche se per lui rimase il divieto di insegnare, riuscì a dare un aiuto alla famiglia grazie ad un incarico presso la scuola media del collegio Balbi-Valier e a vari lavori occasionali. Rendendosi inoltre conto della sua grande responsabilità nei confronti della famiglia, evitò ogni scontro diretto con gli avversari politici. L’istituto magistrale Per Zanzotto intanto, con il passaggio all’istituto magistrale che frequentò a Treviso facendo il pendolare, iniziarono anche i primi forti interessi letterari che cercherà di nutrire al momento consultando l’enciclopedia di Giacomo Prampolini, la Storia Universale della Letteratura, che riportava esempi di poesia di autori di tutto il mondo. Risale al 1936 il suo primo amore e l’ispirazione dei primi versi che, con la complicità della nonna e delle zie, riuscì a pubblicare su un’antologia per la quale aveva versato un piccolo contributo. I versi non avevano ancora uno stile personale e risentivano dell’influenza pascoliana dato che un nipote di Giovanni Pascoli che lavorava nella banca locale, conoscendo la sua passione per la poesia, gli aveva regalato alcuni volumi del poeta in edizione originale. Il passaggio al liceo classico Nel 1937 morì di tifo la sorella Angela: al dolore per il grave lutto, che lo turbò profondamente, si aggiunse la fatica della pendolarità con Treviso, oltre alla stanchezza accumulata con l’intensificarsi dello studio, poiché, volendo rendere più brevi i tempi del diploma, si era presentato all’esame nell’ottobre precedente, portando tutte le materie del penultimo anno, riuscendo a superarlo con successo; aveva inoltre iniziato lo studio del greco, al fine di superare l’esame di ammissione al liceo classico. Si ripresentarono così con maggior forza episodi allergici e asmatici già apparsi in precedenza, che egli visse, insieme agli altri motivi di malessere, con un sentimento di esclusione e precarietà: "[...] credo che abbia male influito sulla mia infanzia e sulla mia adolescenza l’infiltrarsi progressivo in me di un’idea certo aberrante: quella dell’impossibilità di partecipare attivamente al gioco della vita in quanto io ne sarei stato presto escluso. Io soffrivo di varie forme di allergia e a quei tempi la diagnosi poteva essere abbastanza confusa, dubbia. L’asma, la pollinosi che mi tormentavano fin da piccolo erano talvolta interpretate come fatti che potevano aggravarsi, in teoria, anche a breve scadenza". Conseguito il diploma magistrale, il direttore del collegio Balbi-Valler gli affidò alcuni scolari per ripetizioni, mentre ottenne dal parroco, monsignor Martin, duemila lire come “debito d’onore” per continuare gli studi.Zanzotto intanto superava l’esame di ammissione conseguendo la maturità classica come privatista al liceo ginnasio statale Antonio Canova di Treviso. L’Università Nel 1938 si iscrisse alla facoltà di lettere dell’Università di Padova, dove ebbe come insegnanti, tra gli altri, Diego Valeri e il latinista Concetto Marchesi. Sotto la spinta di Valeri, approfondì la lettura di Baudelaire e scoprì Rimbaud, mentre, grazie a Luigi Stefanini, lesse per la prima volta Hölderlin, nella traduzione di Vincenzo Errante. Iniziò intanto ad apprendere la lingua tedesca giungendo così a leggere in lingua originale i grandi poeti della letteratura tedesca: Hölderlin, Goethe e Heine. Nel 1940 ottenne la sua prima supplenza a Valdobbiadene. Scoprì intanto che, all’interno del regime e soprattutto nelle associazioni giovanili, vi erano molti iscritti che agivano nella pratica in modo autonomo o in contrasto con esso, come venne a sapere dal suo amico e maestro Ettore Luccini, organizzatore culturale e docente al liceo classico, nonché legato all’ambiente padovano della rivista anticonformista Il Bò, alla quale Zanzotto collaborò; negli stessi anni intervenne anche sul foglio universitario trevigiano Signum (a cui collaboravano anche Luzi, Strehler e Mario Tobino) che mantiene solo di facciata l’adesione al regime. Lo scoppio della seconda guerra mondiale fu accolto nel paese con grande costernazione, la crisi economica si fece maggiormente sentire e la sua famiglia fu costretta a vendere metà della casa di Cal Santa. Nel 1941 la supplenza a Valdobbiadene non gli fu rinnovata, ma riuscì ad ottenerne una a Treviso presso una scuola media come laureando. Presso il GUF di Treviso, all’interno del quale erano presenti personaggi che praticavano l’antifascismo, Zanzotto tenne, nel 1942, una “presentazione” di Montale dove interpretò il pessimismo dell’autore in chiave politica ed etica con la lettura degli Ossi di seppia. Il 30 ottobre 1942, con una tesi dal titolo “L’arte di Grazia Deledda”, Zanzotto si laureò in letteratura italiana presso l’Università di Padova, avendo come relatore il professor Natale Busetto. Un’edizione anastatica della sua tesi è stata edita dalla Padova University Press. Il periodo bellico Chiamato alla visita militare, venne dichiarato rivedibile per insufficienza toracica e per la forte asma allergica, rimanendo così esonerato alla chiamata alle armi della classe 1921 protagonista delle tragica campagna in Russia e in Grecia. Rifiutò in seguito di rispondere al reclutamento di volontari organizzati dal Fascio. Pubblicò nel nº 10 di Signum una prosa intitolata Adagio e risalgono a quell’anno i primi abbozzi di narrazione tra la prosa e il lirismo che formano il nucleo più antico del volume Sull’Altopiano, pubblicato nel 1964. Si profilava intanto la possibilità di pubblicare, nella collana di poesia che affiancava la rivista fiorentina Rivoluzione, inaugurata da Mario Tobino con Veleno e amore, una breve raccolta di scritti dell’autore ma, a causa degli eventi bellici, il periodico fu costretto a chiudere. La chiamata alle armi Intanto ai primi di febbraio del 1943 Zanzotto ricevette la chiamata alle armi con la leva del '22 e fu inviato ad Ascoli Piceno per frequentare il corso AUC. Tra i libri che portò con sé ci sono i versi di Vittorio Sereni: "quando ancora non lo conoscevo e restavo quasi a bocca aperta, stordito dai rispecchiamenti, dalle fioriture, dal candore, dai misteri della sua Frontiera (e pensavo: ma allora lui ha già detto tutto, di me, di noi, proprio di questi giorni e attimi...) mentre la leggevo portandola con me in treno sotto le armi" (Per Vittorio Sereni 1991). Zanzotto non rimase molto tempo ad Ascoli perché, con l’avanzare della stagione, si era manifestata in tutta la sua virulenza l’allergia che lo costrinse all’Ospedale Militare di Chieti dove gli fu riscontrata una forte compromissione bronchiale con ectasia. Sospeso dall’addestramento come allievo ufficiale, venne inviato al deposito del 49º Fanteria di Ascoli e, non avendo terminato il periodo del CAR, in attesa di nuova visita, assegnato ai servizi non armati. Il periodo di Ascoli Il periodo trascorso ad Ascoli fu caratterizzato dall’inasprimento della malattia, parzialmente risolte solo dopo il '52 alla comparsa dei primi antistaminici, e a una forte depressione caratterizzata da una grave insonnia. Assolto intanto dall’incarico di piantone e affidatogli quello di scritturale, riuscì a trovare un po’ di tempo, soprattutto quando ritornava dalle scarse licenze che lo aiutavano a rinnovare il legame con la sua terra, per dedicarsi alla scrittura di poesie, alcune delle quali faranno parte in seguito delle raccolte Dietro il paesaggio e Vocativo. L’8 settembre e il rientro a Pieve di Soligo L’8 settembre Zanzotto si trovava in libera uscita quando giunse, tra urla e grida, la notizia dell’armistizio. Dopo essere riuscito ad ottenere notizie dalla madre sulla famiglia, rientra alle Casermette, dove venivano addestrati gli allievi ufficiali, ma un battaglione di soldati tedeschi cerca di passare con l’intenzione di attraversare Ascoli. Gli italiani, radunate le forze, vogliono fare opposizione e anche Zanzotto marcia in una colonna di rinforzo che ha l’ordine di combattere. Compreso però che l’avanzare delle truppe tedesche non si può arrestare con le poche forze a disposizione, le retrovie ricevono l’invito a fuggire. Zanzotto, procuratosi un abito borghese, raggiunse San Benedetto del Tronto per tentare la via del ritorno a casa. Alla stazione di Ferrara, pur presidiata dalla Wehrmacht, riesce a salire su un treno che lo porta a Padova dove alcuni amici, presto rintracciati, lo informano dell’intenzione dei fascisti di organizzare un nuovo governo. Appurato che la corriera per Pieve di Soligo compie servizio regolare Zanzotto si reca al suo paese, ma nello stesso giorno vengono affissi ai muri i Befehle con l’ordine per tutti i soldati dell’esercito italiano di trovarsi radunati entro quarantotto ore. In seguito a febbrile colloquio notturno viene presa la decisione di non presentarsi e così, dopo aver fatto rifornimenti di viveri e vestiario, in attesa di una normalizzazione, viene presa la decisione di rifugiarsi sulle colline. Quando i controlli sembrano essersi allentati, Zanzotto ritorna a Soligo e cerca di aiutare finanziariamente la famiglia dando lezioni private nel collegio Balbi-Valier che continua a distinguersi come centro dell’antifascismo locale. L’attività nella Resistenza Nell’inverno del '43– '44 presero forma le prime brigate della Resistenza e Zanzotto iniziò ad aderire ad esse partecipando così alla Resistenza veneta nelle Brigate Giustizia e Libertà occupandosi della stampa e della propaganda del movimento, avendo come punto di riferimento la figura di Antonio Adami, detto Toni, intellettuale antifascista e partigiano non violento ucciso il 26 marzo 1945 dai nazi-fascisti al quale il poeta dedicherà nel 1954 la poesia Martire, primavera. Intanto le speranze di una conclusione degli eventi bellici va allontanandosi e all’interno dell’organizzazione della resistenza la situazione diventa difficile per mancanza di concordia tra le varie associazioni. Viene così a formarsi nella zona una Brigata Mazzini che, pur essendo sotto il controllo del Partito Comunista, accoglie altre differenti forze antifasciste. Zanzotto, che come Adami mantiene la decisione di non far uso delle armi, vi aderisce e viene impiegato nella propaganda partecipando così alla realizzazione di manifesti e fogli informativi. In seguito allo sbarco degli alleati in Francia le organizzazioni partigiane della zona occuparono il Quartier di Piave, territorio strategicamente difficile per le molte vie di accesso e per la presenza del comando nemico di Belluno, formando una vera repubblica partigiana che, all’inasprirsi della pressione tedesca, dovrà prendere atto della sua debolezza. Il 10 agosto del '44 scoppia la prima rappresaglia e il paese è sottoposto a sparatorie e incendi. Molte furono le vittime, tra le quali Gino Dalla Bortola caro amico del poeta. Vennero catturati anche molti ostaggi tra i quali il fratello Ettore che, essendo solo quattordicenne, non sarà deportato a Belsen come gli altri del gruppo ma presto rilasciato. Zanzotto riesce a raggiungere la zona di Mariech e Salvedella dove era situato l’ufficio stampa per deciderne lo spostamento. Il 31 agosto inizia il grande rastrellamento e a portarne notizia sarà il comandante Nardo (Lino Masin) e Toni Adami. Più di duecento abitazioni di Pieve di Soligo, Soligo e Solighetto erano state date alle fiamme. Zanzotto, con i compagni, cercherà di discendere la montagna sapendo che tedeschi e fascisti stavano preparandosi a risalirla. Il giorno dopo Zanzotto riuscirà, con altri, a sfuggire dall’accerchiamento. Ci saranno giorni di violenza e verranno catturati altri partigiani poi deportati. Giunta intanto la notizia del massacro di Soligo Zanzotto si dà alla macchia fino a metà settembre quando finalmente riesce a mettersi in contatto con i familiari. Il paese era nel frattempo diventato una specie di campo di concentramento e con l’arrivo dell’inverno Zanzotto verrà reclutato a forza e mandato al lavoro coatto ma riuscirà, con un certificato medico attestante il peggioramento della malattia, ad essere esonerato dai lavori più pesanti, ma non dalla corvée. Alla fine dell’inverno, e siamo ormai nell’anno 1945, Zanzotto riprese l’attività partigiana e ritornò sulle colline a continuare il lavoro di propaganda. Tranne uno scritto in ricordo dell’amico Toni Adami che diffonde, in questo periodo egli scriverà solamente qualche pagina di diario e una lirica che sarà offerta più tardi per un memoriale della Brigata Piave, dedicata ai morti fucilati in paese. Dopo un mese di continui scontri gli alleati libereranno la zona ma nei giorni successivi il 30 aprile accaddero altri atti di violenza e di rappresaglia a Valdobbiadene e Oderzo. "Un cospicuo materiale documentario sulle vicende di questo periodo sarà raccolto in seguito da Lino Masin nel memoriale La lotta di liberazione nel Quartier del Piave e la Brigata Mazzini 1943-45 (Treviso 1989) al quale Zanzotto contribuirà con la nota Una attiva testimonianza". In questo periodo raccoglierà in un fascicolo le poesie scritte nel '41– '42 che verranno pubblicate nel 1970 con il titolo A che valse? e alcuni componimenti che faranno poi parte di Dietro il paesaggio. Ripresi intanto i contatti con gli amici di Padova ritornerà a frequentare i gruppi attivi legati a "Comunità" e al Partito Comunista. Invitato da Aldo Camerino Zanzotto parteciperà a Venezia ad una importante mostra di poesia recandosi poi, nei mesi successivi, numerose volte a Milano dove, nel giugno, accompagnato l’amico scultore Carlo Conte in casa di Alfonso Gatto incontrerà Vittorio Sereni da poco ritornato dall’Algeria. Nel 1946 il referendum per scegliere il nuovo governo mobiliterà l’intero paese e Zanzotto sosterrà il voto in favore della repubblica. L’emigrazione in Svizzera Intanto Zanzotto, in attesa del termine dell’anno scolastico 1945– 1946 dove aveva ottenuto una supplenza nel collegio del Balbi-Valier, decise di emigrare avendo saputo da amici di Treviso che in Svizzera era più facile trovare un lavoro. Nel mese di settembre ottenne un posto da insegnante presso un collegio di Villars-sur-Ollon, nel Canton Vaud. Costretto prima della fine dell’anno scolastico a rientrare in Italia per essere operato di appendicite, ritornerà in Svizzera dopo il mese di convalescenza ma deciderà di lasciare l’incarico al collegio per recarsi a Losanna dove si stabilirà. Per guadagnare farà il barista e il cameriere riuscendo così, grazie ai turni, ad avere mezza giornata libera che dedicherà a gite in Francia. A Losanna avrà occasione di frequentare i seguaci del medium svedese Swedenborg avendo così la possibilità di conoscere i libri introvabili di questo personaggio che influenzerà Balzac e i Surrealisti. Partecipa ad un premio bandito da Neri Pozza, che sarà vinto da Vittorio Gassman, con un frammento narrativo intitolato Luca e i numeri e inizierà a scrivere in francese il Cahier Vaudois che lascerà incompiuto e inedito. Il rientro in Italia Verso la fine del 1947, quando sembravano riaperte le prospettive d’insegnamento, Andrea farà ritorno in Italia. Partecipò in questo periodo al Premio Libera Stampa di Lugano dove venne segnalato dalla giuria e dove ebbe modo di conoscere molti letterati e critici tra i quali Carlo Bo e Luciano Anceschi e rivedrà Vittorio Sereni con il quale instaurerà un lungo rapporto di amicizia. Tra gli autori segnalati per il Premio Libera Stampa ci sarà anche Pier Paolo Pasolini e Maria Corti. Si recherà spesso a Milano dove alloggerà in un piccolo albergo vicino alla stazione e a poca distanza dalla casa di Sereni e conoscerà molti dei letterati noti in questo periodo come Eugenio Montale e Salvatore Quasimodo. Continuerà inoltre a dedicarsi alla preparazione di diverse prove di concorso e allo studio per la laurea in filosofia ma, completati gli esami necessari, al momento della tesi incentrata su Kafka, si fermò a causa dell’insufficiente conoscenza del tedesco. Ottenne nel frattempo l’abilitazione in italiano, latino, greco, storia e geografia e nell’anno scolastico 1949-'50 ottenne l’insegnamento al Liceo Flaminio di Vittorio Veneto. I primi componimenti poetici, l’insegnamento e i primi scritti critici Nel 1950 concorse al Premio San Babila per la sezione inediti: la giuria era composta da Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Salvatore Quasimodo, Leonardo Sinisgalli, Vittorio Sereni e gli venne attribuito il primo premio per un gruppo di poesie, composte tra il 1940 e il 1948, che sarà poi pubblicato nel 1951 con il titolo Dietro il paesaggio. Trascorso un periodo di crisi depressive si mise in contatto con Cesare Musatti che lo aiuterà, in parte, a fronteggiare e ad uscire dalla situazione di disagio psichico in cui si trovava. Si susseguiranno in questi anni i vari incarichi di insegnamento e a Motta di Livenza incontrerà Giuseppe Bevilacqua che gli farà scoprire la poesia tedesca contemporanea e le opere di Paul Celan. Con il nuovo anno scolastico Zanzotto lascerà la sede di Motta di Livenza per passare a Treviso e nuovamente al Liceo di Vittorio Veneto. Nel 1954, con un intervallo di soli tre anni da Dietro il paesaggio, usciranno nella collana Mondadori diretta da Sereni, Elegia e altri versi con la prefazione di Giuliano Gramigna. Nel frattempo affiancò all’attività di insegnante e poeta quella di critico letterario, collaborando dal 1953 al 1957 a La Fiera Letteraria, dal 1958 al 1965 a Comunità oltre che a Il Mondo e al Il Popolo di Milano. Nello stesso anno Zanzotto ottenne la cattedra nella scuola media di Conegliano come insegnante di ruolo e partecipò ad un incontro letterario a San Pellegrino dove venne presentato da Ungaretti. Il discorso pronunciato da quest’ultimo fu molto lusinghiero e comparirà su “L’Approdo”: «[...] Caro Zanzotto, eccoLa entrato in una storia illustre, e Le auguro, e ora verrà il più difficile, che in essa Ella riesca a portare a conclusione la Sua storia. Coraggio»A Padova conobbe il letterato feltrino Silvio Guarnieri con il quale strinse un forte legame d’amicizia che andò a consolidarsi nel corso del 1955. Dopo la sua morte avvenuta nel 1992, sono state rinvenute 101 lettere e cartoline di Zanzotto, oggi depositate presso il Fondo manoscritti di autori moderni e contemporanei dell’Università degli Studi di Pavia. In questo periodo si andò intanto delineando un nuovo libro di poesie che prenderà forma definitiva nel 1956 e verrà dato alla stampa presso Mondadori nel 1957 con il titolo di Vocativo. Le nuove amicizie e il matrimonio Il 1958 sarà segnato dal riapparire delle forme ansiose delle quali aveva sofferto in passato ma troverà un forte sostegno da un gruppo solidale di amici che si ritrovano a Treviso o nei paesi situati in collina; tra questi vi è spesso l’amico Giovanni Comisso, affiancato dal poeta Giocondo Pillonetto. Di questo periodo è la comparsa della figura di Nino (Angelo Mura), agricoltore e proprietario di terreni, nella cui abitazione si terranno convegni dedicati all’arte e alla cucina ai quali partecipano noti artisti e studiosi veneti. Sarà di questo anno la collaborazione con la rivista Comunità, che si protrarrà fino al 1965, e gli incontri frequenti con Marisa Michieli che sposerà nel luglio del 1959. Nello stesso anno vinse il Premio Cino Del Duca con alcuni racconti e iniziò la riflessione sulla sua poesia con la pubblicazione di Una poesia ostinata a sperare. Il 4 maggio del 1960 morì il padre di ictus e il 20 maggio nacque il suo primo figlio, che venne battezzato con il nome del nonno Giovanni. Collaborò in quell’anno alla rivista Il Caffè che riuniva i migliori nomi del panorama letterario del momento, come Calvino, Ceronetti, Manganelli e Volponi. La rivista ospitò in quell’anno un suo scritto, Michaux, il buon combattente, che trattava dell’effetto delle droghe, argomento che, anche se ancora lontano dalla cronaca quotidiana, si stava affacciando nel dibattito culturale. Nel 1961 nacque il secondo figlio, Fabio, e nello stesso anno Zanzotto rinunciò ad un trasferimento che aveva già ottenuto come professore presso l’Università di Padova. Accettò pertanto di organizzare a Col San Martino, una frazione di Farra di Soligo, la scuola media inferiore dove svolse per due anni mansioni di preside e di insegnante. Le distanze da I Novissimi Nel 1962 Mondadori pubblicò il suo volume di versi IX Egloghe e sulla rivista Comunità apparve un articolo nel quale il poeta prendeva decisamente le distanze dai motivi che inserivano la raccolta in un’antologia, con il titolo I Novissimi, delle poesie di Nanni Balestrini, Elio Pagliarani, Edoardo Sanguineti, Alfredo Giuliani e Antonio Porta, sostenendo l’idea di una poesia intesa come esperienza “individuale”. L’articolo, tuttavia, non incrinò il suo rapporto con Luciano Anceschi, direttore della rivista Il Verri e principale promotore dell’antologia. La collaborazione alle riviste Dal 1963 la sua presenza di critico su riviste e quotidiani si intensificò: scrisse per Questo e altro, L’Approdo letterario, Paragone, Nuovi Argomenti, Il Giorno, l’Avanti!, il Corriere della Sera. Scrisse anche numerosi saggi critici, soprattutto su autori a lui contemporanei come (Giuseppe Ungaretti, Eugenio Montale, Vittorio Sereni). Ottenne in questo anno il trasferimento definitivo nella scuola media di Pieve di Soligo dove insegnerà fino al 1971. Altre esperienze Nel 1964 incontrò ad Asolo il filosofo tedesco Ernst Bloch e ne rimase conquistato: veniva intanto pubblicato il suo primo libro di prose creative, Sull’altopiano. La giuria presieduta da Diego Valeri e composta, tra gli altri, da Carlo Bo, Carlo Betocchi e Giacomo Debenedetti, gli assegnò in quello stesso anno il “Premio Teramo” per un racconto inedito. Sempre del '64 è l’esperienza teatrale Il povero soldato, tratta da un montaggio di brani presi dal Ruzante. Nel 1965 partecipò agli incontri italo-iugoslavi di Abbazia insieme a Bandini, Giudici, Segre Dobrica Ćosić che in quel momento era il rappresentante appartenente all’ala liberale del partito comunista al potere. Nel 1966 tradusse per Mondadori dal francese Età d’uomo. Notti senza notte e alcuni giorni senza giorno di Michel Leiris. Intanto, con la conferenza di Jacques Lacan all’Istituto di cultura di Milano in occasione dell’uscita degli Écrits, si inaugurava anche in Italia il fortunato periodo dello strutturalismo e Zanzotto partecipò all’evento insieme ai maggiori rappresentanti dell’arte e della cultura. In questo periodo iniziò a scrivere sull’Avanti! e partecipò a Milano alla presentazione del libro di Ottieri L’irrealtà quotidiana, che egli considerava una tra le più importanti opere del secondo Novecento. Risale al 1967 un suo viaggio a Praga dove partecipò con Sereni, Fortini e Giudici ad una cerimonia di presentazione di un’antologia della poesia italiana ricevendo, insieme agli altri poeti italiani, una calorosa accoglienza. È di questo periodo il suo avvicinamento alle posizioni politiche di Fortini e dei Quaderni Piacentini di Piergiorgio Bellocchio e Grazia Cherchi con la quale manterrà sempre rapporti di amicizia. I primi importanti volumi in versi "La Beltà" Nel 1968 uscì il volume in versi La Beltà (tuttora considerata la raccolta fondamentale della sua opera) presentato a Roma da Pier Paolo Pasolini e a Milano da Franco Fortini, mentre il 1º giugno uscì su Il Corriere della sera una recensione scritta da Eugenio Montale sulla poesia di Zanzotto che, avendo già potuto conoscere alcuni versi del nuovo poeta, aveva scritto: "Zanzotto non descrive, circoscrive, avvolge, prende, poi lascia. Non è proprio che cerchi se stesso e nemmeno che tenti di fuggire alla sua realtà; è piuttosto che la sua mobilità è insieme fisica e metafisica, e che l’inserimento del poeta nel mondo resta altamente problematico e non è nemmeno desiderato[...] È una poesia coltissima, la sua, un vero tuffo in quella pre-espressione che precede la parola articolata e che poi si accontenta di sinonimi in filastrocca, di parole che si raggruppano per sole affinità foniche, di balbettamenti, interiezioni e soprattutto iterazioni. È un poeta percussivo ma non rumoroso: il suo metronomo è forse il batticuore[...] Una poesia inventariale che suggestiona potentemente e agisce come una droga sull’intelletto giudicante del lettore. “Gli sguardi i fatti e senhal” Nel 1969 pubblicò Gli sguardi, i fatti e senhal, scritto subito dopo lo sbarco sulla luna effettuato dall’astronauta statunitense Neil Armstrong il 21 luglio, dimostrando ancora una volta quanto egli fosse attento al pulsargli della vita intorno, agli eventi e al loro concatenarsi. In questo anno gli viene assegnato in Mestre il prestigioso premio della “Tavola all’Amelia” di Dino Boscarato. Nel 1970 fu finalista al Premio Firenze con Ted Hughes e Paul Celan, tradusse il Nietzsche di Georges Bataille e pubblicò con l’editore Vanni Scheiwiller un volumetto di quattordici liriche come omaggio agli amici intitolato A che valse?(Versi 1938-1942), fuori commercio e a tiratura limitata. Si appassionò in questo periodo alla lettura di Le geste et la parole dell’etnologo e paleontologo francese André Leroi-Gourhan che gli diede modo di riflettere sul linguaggio e l’espressione umana. Nella primavera del 1973 intraprese, con Augusto Murer, un viaggio in Romania, dove alcune sue poesie erano già state tradotte, ma fu costretto a rientrare in patria per l’aggravarsi delle condizioni di salute della madre. Zanzotto rientrò da Bucarest, attraverso l’Ungheria e la Jugoslavia, in treno per timore dell’aereo, che non utilizzò mai come mezzo di trasporto. Pochi giorni dopo il suo rientro la madre morì, lasciandolo enormemente addolorato. Ripreso comunque il suo lavoro di scrittore tradusse La letteratura e il male di Georges Bataille per l’editore Rizzoli e, sempre nel 1973, pubblicò un nuovo volume di versi, intitolato Pasque. Esce nello stesso anno anche l’antologia Poesie (1938-1972) negli Oscar Mondadori, a cura di Stefano Agosti. Nel 1974 il n. 8-9 di Studi novecenteschi, dal titolo Dedicato a Zanzotto, raccoglieva gli interventi di numerosi poeti e studiosi sulla sua opera tra i quali Armando Balduino, Fernando Bandini, Amedeo Giacomini, Luigi Milone e Gino Tellini. Nel 1975 e nel 1976 il poeta partecipò ai corsi estivi dell’Università di Urbino tenendo numerose conferenze e brevi seminari sulla letteratura contemporanea. Strinse in questo periodo amicizia con il romanziere Wolfgang Hildesheimer, interprete durante i processi di Norimberga e intensificò la collaborazione con il Corriere della sera scrivendo recensioni su Leonardo Sinisgalli, Enrico Solmi, Ronald Laing, Alexandros Panagulis. Uscì in questo periodo un’antologia poetica in lingua inglese, “Selected Poetry of Andrea Zanzotto”, per le edizioni dell’Università di Princeton nel New Jersey alla quale si interessarono sia Cesare Segre che Sergio Perosa e venne pubblicata da Garzanti la traduzione di La ricerca dell’assoluto di Honoré de Balzac. Nel corso dell’anno iniziò la stesura dei sonetti che comporranno la sezione Ipersonetto di Il Galateo in Bosco. L’incontro con Fellini e il poemetto "Filò" Nell’estate del '76 il poeta, per la segnalazione di Nico Naldini, iniziò a collaborare al Casanova di Fellini, da lui incontrato per la prima volta nel 1970 alla presentazione del film I clowns. Nello stesso anno viene pubblicata l’opera Filò dalle edizioni Ruzzante di Venezia che comprende la lettera di Fellini, dove dichiara le sue aspettative, i versi per il film Casanova, quelli sul dialetto e una lunga nota, oltre a cinque disegni di Fellini e alla trascrizione in italiano delle parti in dialetto dello studioso veneziano Tiziano Rizzo. Venne pubblicata in questo periodo anche la traduzione dal francese di Studi di sociologia dell’arte di Pierre Francastel per la casa editrice Rizzoli che poco tempo prima lo aveva invitato a partecipare ad un comitato di lettura al quale parteciparono anche Claudio Magris, Carlo Bo, Giacinto Spagnoletti e Giorgio Caproni. Nel 1977 tradusse dal francese Il medico di campagna di Honoré de Balzac che venne pubblicato da Garzanti e nel medesimo anno vinse il Premio internazionale Etna-Taormina per la sua produzione letteraria. Il galateo in bosco e il Premio Viareggio Nel dicembre 1978, viene pubblicato nella collana Lo Specchio, di Mondadori Il Galateo in Bosco con prefazione di Gianfranco Contini. Nell’introduzione Contini lo definisce “pur difficile affabile poeta” un che scava con le mani le profondità sotterranee del suo bosco. Il Galateo in Bosco costituisce il primo volume di una trilogia che riceverà il Premio Viareggio nel 1979. Ancora per Fellini, “Fosfeni” e il Premio Librex Montale Nel 1980 scrisse alcuni dialoghi e stralci di sceneggiatura del film La città delle donne di Fellini, che incontrò più volte in Veneto con la moglie Giulietta Masina, che sarebbe divenuta la madrina del Premio Comisso di Treviso. Nello stesso anno, in marzo, il poeta partecipò, presso le scuole secondarie di Parma, ad alcune significative testimonianze alle quali contribuiscono anche Attilio Bertolucci, Vittorio Sereni, Giuseppe Conte e Maurizio Cucchi le cui testimonianze verranno pubblicate nel 1981 dalla casa editrice Pratica con il titolo Sulla poesia. Conversazioni nelle scuole. Venne intanto pubblicata presso una piccola casa editrice di Teramo la trascrizione di una storia popolare per bambini, “La storia dello zio Tonto”. Mostrando interesse per la poesia giapponese dello haiku provò dei tentativi di scrittura di questo genere. Nel 1982, il 9 marzo, gli verrà attribuita la laurea ad honorem dall’Università Ca’ Foscari di Venezia e continuerà la collaborazione per incisioni e cartelle insieme ad artisti di orientamenti diversi, come Armando Pizzinato, Guido Guidi, Antonio Zancanaro, Giuseppe Zigania, Augusto Murer e poi anche Emilio Vedova. Nel 1983 scrisse per il film di Fellini E la nave va i Cori che verranno pubblicati nello stesso anno da Longanesi insieme alla sceneggiatura e uscì Fosfeni, secondo libro della trilogia, con il quale ottenne il Premio Librex Montale. La depressione In questo periodo si acuì l’insonnia di cui soffriva da tempo, tanto da costringerlo a farsi ricoverare. Continuò a tenere un diario sul quale annotare gli avvenimenti in modo sistematico, quasi una terapia per la sua nevrosi. Nella primavera-estate 1984, i mesi più scuri della depressione, iniziò a scrivere in modo sistematico una serie di (pseudo) haiku in inglese, che sottotitolò For a season. Zanzotto nel corso del tempo tradusse poi egli stesso in italiano gli haiku originariamente scritti in inglese, in quel che alla fine divenne un esperimento di poesia bilingue. Negli Stati Uniti e in Gran Bretagna gli haiku in inglese e italiano sono stati pubblicati nel 2012 in Haiku for a season (The University of Chicago Press, a cura di Anna Secco e Patrick Barron), l’ultimo volume di versi licenziato dal poeta. Nella tarda primavera dell’84, segno di un miglioramento, compì un viaggio a Parigi per recarsi ad una serata in suo onore al Théâtre de Chaillot. “Idioma” e il Premio Feltrinelli Nel 1986 uscì, presso Mondadori, il terzo volume della trilogia intitolato Idioma e la casa editrice Arcane 17 di Nantes stampò la traduzione francese della trilogia “Le Galaté au Bois”. Il 1987 fu l’anno della completa riabilitazione fisica. Il n. 37-38 della rivista L’immaginazione fu dedicato al poeta con numerosi interventi di nomi famosi, tra i quali, Fortini, Prete, Rigoni Stern e in primavera uscì il primo numero della rivista Vocativo in gran parte dedicato a Zanzotto. Nello stesso anno ricevette il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei. La prima traduzione della sua opera Nell’estate del 1988 si recò a Berlino per un incontro internazionale di poesia e nel 1990 uscì, tradotta in lingua tedesca, una nuova selezione delle sue poesie con il titolo Lorna, Kleinod der Hügel (Lorna, gemma delle colline) e la raccolta Racconti e prose. I volumi contenenti gli interventi critici Nel 1991 uscì presso Mondadori il primo volume degli interventi critici del poeta usciti su riviste e giornali a partire dai primi anni cinquanta con il titolo di Fantasie e avvicinamento. Il 1992 fu l’anno dei congressi e delle celebrazioni con numerose richieste di intervento su giornali e riviste. Nel 1993 Zanzotto si recò a Münster, in Germania, per ricevere il premio per la poesia europea e nel 1994 uscì, sempre presso Mondadori, la seconda raccolta di scritti critici con il titolo Aure e disincanti nel Novecento. Apparve intanto nella sezione europea della collezione “opere rappresentative” dell’Unesco la traduzione in francese di un’antologia con la sua opera poetica, Du Paysage à l’Idiome, a cura di Philippe Di Meo e il poeta venne festeggiato al Beaubourg di Parigi. Sempre in questo periodo verrà composta da Mirco De Stefani un’opera musicale sul testo di Il Galateo in Bosco, incisa poi su compact disc, che si eseguirà a Treviso. Le altre due parti della trilogia, Fosfeni e Idioma, verranno interpretate, sempre in chiave musicale, nel 1995 la prima e nel 1997 la seconda che verrà eseguita a Venezia presso la Fondazione Cini. Le sue ultime opere: da Meteo a Conglomerati Nel 1995 l’Università di Trento gli attribuì la laurea honoris causa. Nel 1996, dieci anni dopo la pubblicazione di Idioma, venne pubblicato dalla casa editrice Donzelli Poesia un piccolo volume intitolato Meteo con venti disegni di Giosetta Fioroni e una Nota finale in cui il poeta scrive: Nel 1996 va via di testa per una minorenne presentatagli da un amico: per lei, che poco lo corrisponde preferendogli l’amico, compone versi inequivocabili e pudicamente inediti. Nel 2000 ricevette il Premio Bagutta per le Poesie e prose scelte e, il 6 ottobre, la laurea honoris causa in lettere dall’Università di Torino. Del 2001 è il libro composito intitolato Sovrimpressioni, che si concentra intorno al tema della distruzione del paesaggio. L’anno successivo ricevette il premio “Dino Campana”. Su proposta della Facoltà di Lettere e Filosofia, l’Università di Bologna gli concesse la laurea ad honorem l’8 marzo 2004.Scrisse anche alcune storie per bambini in lingua veneta, come La storia dello Zio Tonto, libera elaborazione dal folclore trevigiano e La storia del Barba Zhucon con immagini di Marco Nereo Rotelli che ha avuto la seconda ristampa nel gennaio del 2004. Il 3 aprile 2005 vide le stampe un nuovo libro dello scrittore dal titolo Colloqui con Nino nel quale Zanzotto, con l’aiuto della moglie Marisa, mise insieme un magnifico florilegio che vuol essere esplorazione antropologica, ricerca sentimentale e viaggio nel passato. Il 26 maggio 2008 riceve il premio “IIC Lifetime Achievement Award” «per una vita dedicata alla poesia».In questi anni – dopo avergli riservato numerose pagine saggistiche (tra cui un corposo studio di Al tràgol jért. L’erta strada da strascino apparso su «Il Belli» già nel 1992) e affettive come la postuma Outcasts (Prosa poetica su Cecchinel) – ha in più occasioni designato quale «erede» poetico suo e della grande tradizione del Novecento veneto Luciano Cecchinel, poeta ammirato anche da Cesare Segre come «grande artista, ma anche grande artefice». Nel 2008 Zanzotto è protagonista di un dialogo dal taglio intimista col coetaneo poeta e regista Nelo Risi, da cui è nato il film Possibili rapporti. Due poeti, due voci. Nel febbraio 2009 uscì In questo progresso scorsoio: una conversazione col giornalista coneglianese Marzio Breda, nella quale Zanzotto esprime l’angoscia delle riflessioni sul tempo presente e il suo lucido pensiero di ottantasettenne. Nello stesso anno, in occasione del suo ottantottesimo compleanno, il poeta pubblica Conglomerati, la nuova raccolta poetica di scritti composti tra il 2000 e il 2009, edita nella collana Lo Specchio della Mondadori; in questo libro Zanzotto si confronta ancora con una realtà in continuo mutamento culturale e antropologico, secondo la poetica dell’intervista con Breda. Per il suo novantesimo compleanno (con molti festeggiamenti, dalla Regione Veneto all’Università Cattolica di Milano) sono usciti molti libri, tra cui due con inediti: Ascoltando dal prato. Divagazioni e ricordi, a cura di Giovanna Ioli da Interlinea e il numero 46 della rivista “Autografo” dal titolo I novanta di Zanzotto. Studi, incontri, lettere, immagini. Il poeta muore la mattina del 18 ottobre 2011 presso l’ospedale di Conegliano a causa di complicazioni respiratorie, una settimana dopo aver compiuto 90 anni. Il funerale è stato celebrato il 21 ottobre al duomo di Pieve di Soligo da monsignor Corrado Pizziolo, vescovo di Vittorio Veneto; dopo la celebrazione gli hanno reso omaggio tre orazioni del giornalista Marzio Breda e dei critici Stefano Dal Bianco (con una laudatio funebre) e Stefano Agosti. Eventi dedicati ad Andrea Zanzotto La Regione del Veneto e CINIT– Cineforum Italiano presentano “Omaggio ad Andrea Zanzotto” un ciclo di appuntamenti curati da Neda Furlan e dedicati al grande poeta veneto. Tra gli eventi della rassegna: Ritratti. Andrea Zanzotto, di Carlo Mazzacurati e Marco Paolini. Convegno “Omaggio ad Andrea Zanzotto”, 25-26 ottobre 2012, presso l’Istituto Italiano di Cultura di Parigi. Convegno “Andrea Zanzotto, la natura, l’idioma”, 10-12 ottobre 2014, Pieve di Soligo. Convegno "Nel «melograno di lingue», Plurilinguismo e traduzione in Andrea Zanzotto", novembre 2014, Nancy. = Maggio 2007 = La rivista bimestrale di letteratura “l’immaginazione” diretta da Anna Grazia D’Oria ha dedicato il n. 230 interamente ad Andrea Zanzotto. Il fascicolo monografico raccoglie i seguenti testi: La poetica La poetica di Andrea Zanzotto si può ricostruire attraverso la lettura delle sue opere che segnano le tappe di un percorso espressivo praticato all’interno dell’esperienza di una poesia difficile e tuttora in fieri, esulante dai classici protocolli interpretativi e dalla normale divisione in periodi. Come dice il critico Stefano Agosti, nel saggio introduttivo all’opera complessiva delle Poesie di Andrea Zanzotto avvenuta in prima edizione nel settembre del 1999 e in seconda edizione nel 2003 da parte di Mondadori ne “I Meridiani”: il punto non si può fare proprio perché l’oggetto– nelle sue configurazioni cronologicamente più prossime, ed esemplificabili perciò in Meteo (1996) e negli specimini di un nuovo volume tuttora in fieri, qui presentati sotto la titolazione provvisoria e generica di Inediti, sembra volto ad attestare una nuova posizione dell’operatore nei riguardi di quella che, molto comprensivamente e tuttora centralmente, possiamo denominare la sua esperienza di linguaggio. La formazione La formazione di Zanzotto non è facile da individuare perché diversa rispetto alle correnti e ai gruppi che hanno caratterizzato il nostro Novecento. La sua vera scuola furono soprattutto le numerose, intense e disparate letture: da Hölderlin a Rimbaud, da Lorca a Éluard, da Ungaretti ai surrealisti e agli ermetici, per non dimenticare Virgilio ed Orazio, Dante e Petrarca, Molière e Leopardi, Carducci e D’Annunzio, Husserl e la logica matematica. Nel libro-intervista di Marzio Breda, Zanzotto indica come letture fondamentali, negli anni della guerra, Sereni e Rilke, precisamente “Frontiera” del primo e i “Sonetti ad Orfeo” del secondo, nella versione di Giaime Pintor. Egli poi assorbì una infinità di elementi: dall’economia ai mass media, dalla sociologia alla fantascienza, dalla semiologia alla psicanalisi (più Lacan che Freud) e il tutto rimescolato a volte in un linguaggio disteso e piano e altre volte crittografico. Poesia anticorrente Quando furono pubblicati i suoi primi libri (Dietro il paesaggio nel 1951; Vocativo nel 1957), Andrea Zanzotto venne accolto come il più prestigioso della sua generazione e considerato il continuatore della linea ungarettiano-ermetica e inoltre con qualche eco raccolta dal surrealismo francese e dalla poesia spagnola degli anni venti e trenta. Una poesia dunque fortemente anticorrente. Ma in seguito, con gli sviluppi che ebbe la sua produzione, pur confermando la forte propensione verso la piena forma lirica e la dolcezza elegiaca, si è resa insufficiente la precedente collocazione. Poesia della nuova avanguardia Con le IX Egloghe (1962) il suo discorso si modifica e si allarga sia a livello psicologico (viene introdotto un io autobiografico pieno di ansie e interrogativi sul proprio rapporto con la realtà), sia a livello della forma, con un totale ripensamento dei propri mezzi comunicativi. Il linguaggio si sviluppa seguendo procedimenti parzialmente simili al sogno e all’inconscio. Ed è in questo periodo che la poesia di Zanzotto rivela affinità con le esperienze contemporanee della neoavanguardia. La ricerca poetica degli anni sessanta Una ulteriore svolta e accelerazione della poesia di Zanzotto avviene con l’opera La beltà, (1968) dove ogni cosa appare abbandonata a sé stessa e galleggiante in una non-atmosfera. Se nelle IX Egloghe il poeta era ancora dentro al suo paesaggio, ora i suoi oggetti (alberi, fiumi, gregge, luna, neve) sono, se pur presenti, appiattiti e immobili. Il suo linguaggio diventa rarefatto, un ammasso di puri fonemi, balbettii, petèl (il primo linguaggio dei bambini, linguaggio che si ferma ad uno stadio di semincoscienza). Questa rarefazione è dovuta ad un passaggio fondamentale nel percorso poetico di Zanzotto, quello ad una ricerca di conoscenza poetica che non si indirizza più sulla realtà esterna (sul paesaggio) come referente misterioso ma positivo e salvifico in quanto familiare. Davanti alla distruzione dell’autenticità di questa realtà da parte della civiltà dei consumi la ricerca di conoscenza e salvezza per il soggetto si sposta sulla lingua stessa, una lingua ormai irrelata, ma alla quale soltanto il poeta può fare appello, poiché la realtà ormai si riduce ad essa. La posizione più avanzata Sottoelencando alcune tappe intermedie come il monologo-lascito in lingua veneta di Filò (1976), nell’affrontare i testi che documentano la posizione più avanzata di Zanzotto si osserva nella trilogia composta da Il galateo in bosco (1978), Fosfeni (1983) e Idioma (1986) la completa lacerazione fra la natura e la storia e pertanto anche la fine dell’elegia e dell’idillio, tra il paesaggio e il retro del paesaggio. La catastrofe è descritta in tre momenti: nel Galateo vengono analizzati gli eventi esterni (dal “grande macello” della guerra '15-'18 sino alla discontinuità della tradizione metrica), in Fosfeni viene “vissuta” nella lingua e nel linguaggio, in Idioma è raccontata attraverso le testimonianze sulle conseguenze psicologiche e di costume. La funzione del linguaggio La struttura poetica di Zanzotto è basata sulle scelte lessicali, sull’innovazione e deformazione ma soprattutto sulla costruzione del discorso. La sua poesia è prevalentemente autobiografica e cosparsa di profonde riflessioni filosofiche-esistenziali. Il lessico utilizza sia la lingua infantile, sia gli inserti poliglotti creando in molti casi difficoltà di lettura e di decifrazione che generano a volte vera e propria incomunicabilità. La lingua, secondo Zanzotto, è incapace di render conto dei gradi del vissuto, pertanto il poeta deve trovare una linea che divida la coscienza dall’incoscienza. Da qui nasce il tentativo di trovare un’autentica ed originaria dimensione, sia del dire che dell’essere, partendo da un “massiccio patrimonio linguistico” in uno stato di “regressione afasica”. Avviene così che l’opposizione tra afasia e verbalizzazione venga rappresentata o dal vociferare babelico o, ad un altro estremo, dal silenzio. Zanzotto, come scrive in un bel saggio Franco Fortini, non usa strutture metriche codificate, se non quando vuole esibirsi stilisticamente. Più che altro le sue sono pastiche di carattere formale dove prevale il gusto dell’esercizio tecnico. Onorificenze e riconoscimenti Opere In volume * Luoghi e paesaggi, a cura di M. Giancotti, Milano, Bompiani, 2013. Traduzioni a cura di Andrea Zanzotto * Georges Bataille, La letteratura e il male, Milano, Rizzoli, 1973; Milano, SE, 1987 * Georges Bataille, Su Nietzsche, Bologna, Cappelli, 1980; Milano, SE, 1994 Traduzioni straniere delle opere di Andrea Zanzotto * Selected Poetry and Prose of Andrea Zanzotto, edited and translated by Patrick Barron et. al., University of Chicago Press, Chicago (Illinois) 2007 * Selected Poetry of Andrea Zanzotto, edited and translated by Ruth Feldman-Brian Swann, Princeton University Press, Princeton (New Jersey) 1975 * Le Galaté au Bois, traduit de l’italien par Philippe Di Meo, Arcane 17 ("L’Hippogrife"), Nantes, 1986 * Lichtbrechung, mit einem Kommentar von Stefano Agosti, Übersetzung Donatella Capaldi, Ludwig Paulmichi, Peter Waterhouse, Verlag Droschl, Wien-Graz 1987 * Lorna, Kleinod der Hügel. “Lorna, gemma delle colline”, übersetzt und herausgegeben von Helga Böhmer und Gio Batta Bucciol, mit Zeichnungen von Hans Joachim Madaus, Narr ("Italienische Bibliothek, 4"), Tübingen 1990 * Poems by Andrea Zanzotto, Translated from the Italian by Antony Barnett, A-B, Lewes (Canada) 1993 Du Paysage à l’idiome. Anthologie poétique 1951-1986, édition bilingue– edizione bilingue, traduction de l’italien et présentation par Philippe Di Meo, Maurice Nadeau– Unesco ("Collection Unesco d’œuvres représentatives. Série européenne"), 1994 (in quarta copertina passo antologico di Pier Paolo Pasolini) * La Veillée pour le Casanova de Fellini, avec une lettre et quatre dessins de Federico Fellini, Texte français et posface de Philippe Di Meo, Éditions Comp’Act (Collection “Le bois des mots”), Chambéry 1994 Del Paisaje al Idioma. Antología poética, con un “Autorretrato” del autor, seleccion y prólogo de Ernesto Hernández Busto, Universítad Iberoamericana– Artes de México ("Colectión Poesía y Poética"), Colonia Lomas de Santa Fe– Colonia Roma 1996 * Peasant’s Wake for Fellini’s “Casanova” and Other Poems, Edited and Translated by John P. Welle and Ruth Feldman, Drawings by Federico Fellini and Augusto Murer, University of Illinois Press, Urbana and Chicago 1997 * Hääl ja tema vari. La voce e la sua ombra, Itaalia keelest tõlkinud Maarja Kangro. Eesti Keele Sihtasutus, Tallinn 2005. Bibliografia della critica Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Andrea_Zanzotto

Salvatore Quasimodo

Salvatore Quasimodo (Modica, 20 agosto 1901 – Napoli, 14 giugno 1968) è stato un poeta e traduttore italiano, esponente di rilievo dell’ermetismo. Ha contribuito alla traduzione di vari componimenti dell’età classica, soprattutto liriche greche, ma anche di opere teatrali di Molière e William Shakespeare. È stato vincitore del premio Nobel per la letteratura nel 1959. Biografia I primi anni e gli studi Salvatore Quasimodo nacque il 20 agosto 1901 da Gaetano Quasimodo e Clotilde Ragusa a Modica, dove il padre era stato assegnato come capostazione. A 5 giorni dalla sua nascita, la madre Clotilde, insieme al piccolo Salvatore e il primogenito Vincenzo (1899), si trasferì dai nonni paterni, nella più sicura casa di Roccalumera, luogo d’origine della famiglia Quasimodo. Purtroppo, il padre Gaetano non poté abbandonare il luogo di lavoro per seguirla e, dopo circa due mesi dalla nascita di Salvatore, venne trasferito. Salvatore fu battezzato a Roccalumera, nella Chiesa della Madonna Bambina da Mons. Francesco Maria Di Francia, l’11 settembre 1901. A Roccalumera il poeta trascorrerà tutta la sua infanzia e giovinezza e ci farà ritorno da grande per trovare i genitori e la famiglia (Dopo il conferimento del Premio Nobel fece ritorno a Roccalumera per consegnare l’ambito premio al padre novantenne). Nel 1908 a Gela iniziò a frequentare le scuole elementari. Nel gennaio del 1909 il padre venne incaricato della riorganizzazione del traffico ferroviario nella stazione di Messina colpita da un disastroso terremoto e successivo maremoto il 28 dicembre 1908. In quel periodo vissero in un carro merci parcheggiato su un binario morto della stazione. Quegli anni resteranno impressi nella memoria del poeta, che li evocherà nella poesia Al Padre, inserita nella raccolta La terra impareggiabile, scritta in occasione dei 90 anni del padre e dei 50 anni dal disastroso terremoto di Messina: Nel 1916 si iscrisse all’Istituto Tecnico Matematico-Fisico di Palermo per poi trasferirsi a Messina nel 1917 e continuare gli studi presso l’Istituto “A. M. Jaci”, dove conseguì il diploma nel 1919. Durante la permanenza in questa città conobbe il giurista Salvatore Pugliatti e il futuro sindaco di Firenze Giorgio La Pira, con i quali strinse un’amicizia destinata a durare negli anni. Insieme ad essi fondò nel 1917 il «Nuovo Giornale Letterario», mensile sul quale pubblicò le sue prime poesie. La tabaccheria di uno zio di La Pira, unico rivenditore della rivista, divenne luogo di ritrovo per giovani letterati. Nel 1919 si trasferì a Roma dove pensava di terminare gli studi di ingegneria ma, subentrate precarie condizioni economiche, dovette abbandonarli per impiegarsi in più umili attività: disegnatore tecnico presso un’impresa edile, e in seguito impiegato presso un grande magazzino. Nel frattempo collaborò ad alcuni periodici e iniziò lo studio del greco e del latino con la guida di monsignor Mariano Rampolla del Tindaro, pronipote omonimo del più famoso cardinale Rampolla del Tindaro, Segretario di Stato di Papa Leone XIII. Le precarie condizioni economiche di questo periodo romano terminarono nel 1926, quando venne assunto dal Ministero dei lavori pubblici e assegnato come geometra al Genio Civile di Reggio Calabria. Qui strinse amicizia con i fratelli Enzo Misefari e Bruno Misefari, entrambi esponenti (il primo comunista, il secondo anarchico) del movimento antifascista di Reggio Calabria. Nello stesso anno sposò Bice Donetti, una donna di otto anni più grande, con la quale aveva precedentemente convissuto e a cui dedicherà una poesia dopo la sua morte, avvenuta nel 1946: Nel 1948, due anni dopo la morte della prima moglie, si risposerà con la ballerina Maria Cumani, da cui avrà il figlio Alessandro Quasimodo. Nel periodo di Reggio Calabria nacque la nota lirica Vento a Tindari, dedicata alla storica località presso Patti: Il padre andò in pensione nel 1927 e dopo una breve permanenza a Firenze si ritirò definitivamente nella sua casa di Roccalumera, dove visse con due sorelle che non si erano sposate. Molti anni dopo il poeta emigrato si raffigurerà con questi versi: Nel 1939 divenne il titolare del settimanale Omnibus. Periodo dell’ermetismo (1930– 1942) Risolti i problemi economici poté dedicarsi più assiduamente all’opera letteraria. Fu invitato a Firenze dallo scrittore Elio Vittorini, che nel 1927 aveva sposato la sorella Rosa, che lo introdusse nei locali ambienti letterari permettendogli di conoscere Eugenio Montale, Arturo Loria, Gianna Manzini e Alessandro Bonsanti. Il Bonsanti che in quel tempo dirigeva la rivista Solaria pubblicò nel 1930 tre poesie (Albero, Prima volta, Angeli). Maturò e affinò così il gusto per lo stile ermetico, cominciando a dare consistenza alla sua prima raccolta Acque e terre, che lo stesso anno pubblicò per le edizioni Solaria.Nel 1931 venne trasferito presso il Genio Civile di Imperia e in seguito presso quello di Genova. In questa città conobbe Camillo Sbarbaro e le personalità di spicco che gravitavano intorno alla rivista Circoli, con la quale il poeta iniziò una proficua collaborazione pubblicando, nel 1932, per le edizioni della stessa, la sua seconda raccolta Oboe sommerso nella quale sono raccolte tutte le poesie scritte tra il 1931 e il 1932 e dove comincia a delinearsi con maggior chiarezza la sua adesione all’ermetismo. Dal marzo 1933 alla fine del 1934 lavorò come funzionario all’Ufficio del Genio Civile di Cagliari. Ottenuto il trasferimento a Milano, venne però destinato da un capo-ufficio alla sede di Sondrio. Nel 1938 lasciò il Genio Civile per dedicarsi alla letteratura, iniziò a lavorare per Cesare Zavattini in un’impresa di editoria e soprattutto si dedicò alla collaborazione con Letteratura, una rivista vicina all’ermetismo. Nel 1938 pubblicò a Milano una raccolta antologica intitolata Poesie, e nel 1939 iniziò la traduzione dei lirici greci. Nel 1941 venne nominato professore di Letteratura italiana presso il Conservatorio di musica “Giuseppe Verdi” di Milano, incarico che mantenne fino alla fine del 1968. Seconda guerra mondiale Nel 1942 entrerà nella collana Lo specchio della Arnoldo Mondadori Editore l’opera Ed è subito sera, che inglobava anche le Nuove poesie scritte tra il 1936 e il 1942. Rapporti con il fascismo Nel 1940, a guerra iniziata e a Patto d’Acciaio consolidato, collaborò con la rivista Primato. Lettere e arti d’Italia dove il ministro Giuseppe Bottai raccolse intellettuali di varia estrazione e orientamento, anche lontani dal regime. Gli sarà rimproverato, in anni recenti, di aver sostenuto l’uso del voi con un intervento su un numero monografico del 1939 della rivista Antieuropa, e di aver inoltrato supplica a Mussolini che gli venisse assegnato un contributo per potere proseguire l’attività di scrittore. Pur professando chiare idee antifasciste, non partecipò attivamente alla Resistenza; in quegli anni si diede alla traduzione del Vangelo secondo Giovanni, di alcuni Canti di Catullo e di episodi dell’Odissea che verranno pubblicati solamente dopo la Liberazione. Periodo della poesia impegnata (1945– 1966) Nel 1945 si iscrisse al PCI e l’anno seguente pubblicò la nuova raccolta dal titolo Con il piede straniero sopra il cuore—ristampata nel 1947 con il nuovo titolo Giorno dopo giorno, testimonianza dell’impegno morale e sociale dell’autore che continuerà, in modo sempre più profondo, nelle successive raccolte, composte fra il 1949 e il 1958, come La vita non è sogno, Il falso e il vero verde e La terra impareggiabile, che si pongono, con il loro tono epico, come esempio di limpida poesia civile. Durante questi anni il poeta continuò a dedicarsi con passione all’opera di traduttore sia di autori classici che moderni, e svolse una continua attività giornalistica per periodici e quotidiani, dando il suo contributo soprattutto con articoli di critica teatrale. Nel 1950 il poeta ottenne il Premio San Babila, nel 1953 condivise il Premio Etna-Taormina con il poeta gallese Dylan Thomas, nel 1958 il premio Viareggio e nel 1959 gli fu assegnato il premio Nobel per la letteratura «per la sua poetica lirica, che con ardente classicità esprime le tragiche esperienze della vita dei nostri tempi» che gli fece raggiungere una definitiva fama. Ad esso seguirono le lauree honoris causa dalla Università di Messina nel 1960 e da quella di Oxford nel 1967. Il poeta trascorse gli ultimi anni di vita compiendo numerosi viaggi in Europa e in America per tenere conferenze e letture pubbliche delle sue liriche che nel frattempo erano state tradotte in diverse lingue. Nel 1965 cura la pubblicazione di Calignarmata, opera di poesia dell’autore Luigi Berti, uscita un anno dopo la morte di quest’ultimo (1964). Del 1966 è la pubblicazione di Dare e avere, sua ultima opera.Il 14 giugno del 1968, mentre il poeta si trovava ad Amalfi, dove doveva presiedere un premio di poesia, venne colpito da un ictus (aveva avuto già un infarto mentre visitava l’Unione Sovietica), che lo condusse alla morte poche ore dopo: il cuore del poeta, infatti. smise di battere sull’auto che lo stava trasportando all’ospedale di Napoli. Il suo corpo fu trasportato a Milano e tumulato nel Famedio del Cimitero Monumentale, luogo che già ospitava le spoglie di Alessandro Manzoni. Quasimodo fu membro della Massoneria. Il poeta e lo scrittore La prima raccolta di Quasimodo, Acque e terre (1930), è incentrata sul tema della sua terra natale, la Sicilia, che l’autore lasciò già nel 1919: l’isola diviene l’emblema di una felicità perduta cui si contrappone l’asprezza della condizione presente, dell’esilio in cui il poeta è costretto a vivere (così in una delle liriche più celebri del libro, Vento a Tindari). Dalla rievocazione del tempo passato emerge spesso un’angoscia esistenziale che, nella forzata lontananza, si fa sentire in tutta la sua pena. Questa condizione di dolore insopprimibile assume particolare rilievo quando il ricordo è legato ad una figura femminile, come nella poesia Antico inverno, oppure a ritmi e motivi più antichi, di origine anche popolare. Se in questa prima raccolta Quasimodo appare legato a modelli abbastanza riconoscibili (soprattutto D’Annunzio, del quale viene ripresa la tendenza all’identificazione con la natura), in Oboe sommerso (1932) ed Erato e Apollion (1936) il poeta raggiunge la piena e personale maturità espressiva. La ricerca della pace interiore è affidata ad un rapporto col divino che è, e resterà successivamente, tormentato, mentre la Sicilia si configura come terra del mito, terra depositaria della cultura greca: non a caso Quasimodo pubblicherà, nel 1940, una notissima traduzione dei Lirici greci. In particolare, nel libro del 1936 vengono celebrati Apollo– il dio del sole ma anche il dio cui sono legate le Muse, e quindi la stessa creazione poetica che è resa dolorosa dalla distanza fisica dell’isola– ed Ulisse, l’esule per eccellenza. È in queste raccolte che si può cogliere appieno la suggestione dell’ermetismo, di un linguaggio che ricorre spesso all’analogia e tende ad abolire i nessi logici tra le parole: importante è in questo senso l’uso frequente dell’articolo indeterminativo e degli spazi bianchi, che, all’interno della lirica, sembrano rimandare continuamente a una serie di significati nascosti che non possono trovare una piena espressione. Nelle Nuove poesie (pubblicate insieme alle raccolte precedenti nel volume Ed è subito sera del 1942 e scritte a partire dal 1936), il ritmo diventa più disteso grazie anche all’uso più frequente dell’endecasillabo o di altri versi lunghi (anche doppi): il ricordo della Sicilia è ancora vivissimo ma si avverte nel poeta un’inquietudine nuova, la voglia di uscire dalla sua solitudine e confrontarsi con i luoghi e le persone della sua vita attuale. In alcune liriche compare infatti il paesaggio lombardo, esemplificato dalla «dolce collina d’Ardenno» che porta all’orecchio del poeta «un fremere di passi umani» (La dolce collina). Questa volontà di dialogo si fa evidente nelle raccolte successive, segnate da un forte impegno civile e politico sollecitato dalla tragedia della guerra; la poesia rarefatta degli anni giovanili lascia il posto ad un linguaggio più comprensibile, dai ritmi più ampi e distesi. Così avviene in Giorno dopo giorno (1947) dove le vicende belliche costituiscono il tema dominante. La voce del poeta, annichilita di fronte alla barbarie («anche le nostre cetre erano appese», afferma in Alle fronde dei salici), non può che contemplare la miseria della città bombardata, o soffermarsi sul dolore dei soldati impegnati al fronte, mentre affiorano alla memoria delicate figure femminili, simboli di un’armonia ormai perduta (S’ode ancora il mare). L’unica speranza di riscatto è allora costituita dalla pietà umana (Forse il cuore). In La vita non è sogno (1949) il Sud è cantato come luogo di ingiustizia e di sofferenza, dove il sangue continua a macchiare le strade (Lamento per il Sud); il rapporto con Dio si configura come un dialogo serrato sul tema del dolore e della solitudine umana. Il poeta sente l’esigenza di confrontarsi con i propri affetti, con la madre che ha lasciato quand’era ancora un ragazzo (e che continua a vivere la sua vita semplice e ignara dell’angoscia del figlio ormai adulto), o col ricordo della prima moglie Bice Donetti. Nella raccolta Il falso e vero verde (1956) dove lo stesso titolo è indicativo di un’estrema incertezza esistenziale, un’intera sezione è dedicata alla Sicilia, ma nel volume trova posto anche una sofferta meditazione sui campi di concentramento che esprime «un no alla morte, morta ad Auschwitz» (Auschwitz). La terra impareggiabile (1958) mostra un linguaggio più vicino alla cronaca, legato alla rappresentazione della Milano simbolo di quella «civiltà dell’atomo» che porta ad una condizione di devastante solitudine e conferma nel poeta la voglia di dialogare con gli altri uomini, fratelli di dolore. L’isola natìa è luogo mitizzato, «terra impareggiabile» appunto, ma è anche memoria di eventi tragici come il terremoto di Messina del 1908 (Al padre). L’ultima raccolta di Quasimodo, Dare e avere, risale al 1966 e costituisce una sorta di bilancio della propria esperienza poetica e umana: accanto ad impressioni di viaggio e riflessioni esistenziali molti testi affrontano, in modo più o meno esplicito, il tema della morte, con accenti di notevole intensità lirica. Opere Raccolte di poesie * Acque e terre, Firenze, sulla rivista Solaria, 1930. * Oboe sommerso, Genova, sulla rivista Circoli, 1932. * Odore di eucalyptus ed altri versi, Firenze, Antico Fattore, 1933. * Erato e Apòllìon, Milano, Scheiwiller, 1936. * Nuove Poesie, Milano, Primi Piani, 1938. * Ed è subito sera, 1947. * La vita non è sogno, Milano, A. Mondadori, 1949. * Il falso e vero verde (1949-1955), Milano, Schwarz, 1956. * La terra impareggiabile, Milano, A. Mondadori, 1958. * Dare e avere. 1959-1965, Milano, A. Mondadori, 1966. Traduzioni * Lirici greci, Milano, Edizioni di Corrente, 1940; maggio 1944, Mondadori. * Virgilio, Il Fiore delle Georgiche, Milano, Edizioni della Conchiglia, 1942.– Milano, Gentile, 1944; Milano, Mondadori, 1957. * Catulli Veronensis, Carmina, Milano, Edizioni di Uomo, 1945.– Milano, Mondadori, 1955. * Omero, Dall’Odissea, Milano, Rosa e Ballo, 1945. * Sofocle, Edipo re, Milano, Bompiani, 1946. * Il Vangelo secondo Giovanni, Milano, Gentile, 1946. * John Ruskin, La Bibbia di Amiens, Milano, Bompiani, 1946. * William Shakespeare, Romeo e Giulietta, Milano, Mondadori, 1948. * Eschilo, Le Coefore, Milano, Bompiani, 1949. * William Shakespeare, Riccardo III, Milano, Edizioni del Piccolo Teatro, 1950.– Milano, Mondadori, 1952. * Pablo Neruda, Poesie, Torino, Einaudi, 1952. * William Shakespeare, Macbeth, Torino, Einaudi, 1952. * Sofocle, Elettra, Milano, Mondadori, 1954. * William Shakespeare, La Tempesta, Torino, Einaudi, 1956. * Molière, Il Tartufo, Milano, Bompiani, 1958. * Fiore dell’Antologia Palatina, Parma, Guanda, 1958. * Edward Estlin Cummings, Poesie scelte, Milano, Scheiwiller, 1958. * Ovidio, Dalle Metamorfosi, Milano, Scheiwiller, 1959. * William Shakespeare, Otello, Collana Lo Specchio, Milano, Mondadori, 1959. * Euripide, Ecuba, Urbino, Armando Argalìa Editore, 1962. * Conrad Aiken, Mutevoli pensieri, Milano, Scheiwiller, 1963. * Euripide, Eracle, Urbino, Armando Argalìa Editore, 1964. * William Shakespeare, Antonio e Cleopatra, Milano, Mondadori, 1966. * Tudor Arghezi, Poesie, Milano, Mondadori, 1966. * Yves Lecomte, Il gioco degli astragali, Edizioni Moneta, 1968. Curatele * Lirici minori del XIII e XIV secolo, a cura di S. Quasimodo e Luciano Anceschi, Milano, Edizioni della Conchiglia, 1941. * Lirica d’amore italiana, dalle origini ai nostri giorni, 1957. * Poesia italiana del dopoguerra, 1958. Altri scritti * Petrarca e il sentimento della solitudine, Milano, Garotto, 1945. * Scritti sul teatro, 1961. * L’amore di Galatea libretto per musica, 1964 * Il poeta e il politico e altri saggi, Milano, Schwarz, 1967. * Leonida di Taranto, Milano, Guido Le Noci ed., 1968; Manduria, Lacaita, 1969. * Lettere d’amore di Quasimodo, post., 1969 * Poesie e discorsi sulla poesia, post., 1971. * Marzabotto parla. Con scritti di Salvatore Quasimodo, Giuseppe Dozza, post., 1976 * A colpo omicida e altri scritti, post., 1977. Riferimenti Wikipedia – https://it.wikipedia.org/wiki/Salvatore_Quasimodo




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